testata ADUC
Inflazione ed investimenti
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Matteo Lombardo *
9 marzo 2011 17:31
 
Per qualsiasi risparmiatore con un orizzonte temporale di medio-lungo periodo, le aspettative di inflazione sono un fattore fondamentale da considerare in ogni decisione di investimento. Si può infatti dire che la sola ragione per risparmiare e rinunciare a consumare oggi è di avere la possibilità di consumare (si spera di più) in futuro. In altre parole, i risparmiatori sono interessati a mantenere il potere di acquisto dei loro investimenti ed il rischio di inflazione è il più importante da valutare.
Quando devono decidere come allocare i propri risparmi, gli investitori considerano il rendimento offerto dagli strumenti presenti sul mercato. Questo rendimento atteso (comunque calcolato) è sempre da considerarsi al lordo della tassazione sulle plusvalenze, e giustamente molti investitori calcolano anche il rendimento al netto della quota trattenuta dallo Stato. Il passo successivo viene però spesso tralasciato o dimenticato, e questo può essere particolarmente oneroso per alcuni tipi di investimenti, ovvero quelli a reddito fisso. Ci riferiamo all’impatto dell’inflazione: quello che è importante per un risparmiatore è infatti il rendimento reale (dopo le tasse, ça va sans dire).
Anche se gli effetti microeconomici sono differenti, semplificando si può affermare che non esiste differenza sostanziale tra un investimento con un rendimento del 5% tassato al 40% in un periodo di zero inflazione e lo stesso investimento esentasse con inflazione al 2%: entrambi infatti hanno un rendimento reale del 3%. Mentre tutti riterrebbero ingiusta ed oltraggiosa una tassazione del 100% sui rendimenti ottenuti, molti si dimenticano che questo è quello che succede quando i rendimenti sono del 3% in un periodo di inflazione anch’essa al 3%...
Mai come oggi c’è stato un così ampio disaccordo tra gli economisti se in futuro dominerà l’inflazione o la deflazione. Da una parte, ci sono quelli che sono preoccupati dalle politiche monetarie di tassi zero e dalla liquidità pompata nel sistema finanziario dalle banche centrali; l’aumento della moneta in circolazione, è la loro tesi, porterà inevitabilmente a maggiore inflazione e minore potere d’acquisto. Dall’altro lato ci sono coloro che puntano sull’esperienza giapponese, con una economia stagnante che conduce alla deflazione. [NdR: una diversa discussione dovrebbe essere fatta sulla definizione stessa di inflazione e su come viene misurata; contrariamente a quello che si pensa comunemente, l’inflazione non è la stessa per tutti. Ci sono inoltre molte legittime critiche al modo in cui viene calcolata e poi riportata sui media.]
Quali investimenti per proteggersi dall’inflazione?
Tornando al campo degli investimenti, tipicamente i risparmiatori assumono che le obbligazioni sono negativamente impattate da un aumento dell’inflazione, mentre le azioni offrono invece una buona copertura contro di essa. La prima affermazione è sostanzialmente corretta: data la “fissità” dei pagamenti, l’inflazione erode il valore delle obbligazioni in termini reali. Ma per la seconda affermazione la situazione non è così chiara: le azioni hanno storicamente avuto un rendimento positivo nei periodi in cui l’inflazione era bassa e misto, ma tendenzialmente negativo, quando era alta.
Il motivo di questo comportamento è facilmente spiegabile: nel medio-lungo periodo l’andamento del mercato azionario è principalmente una funzione del rendimento dei mezzi propri delle aziende (il cosiddetto ROE, return on equity). Per aumentare il ROE esistono 5 possibilità:
1. Migliorare il turnover ratio (il rapporto tra fatturato ed attività aziendali);
2. Una diminuzione del costo del debito;
3. Una maggiore leva finanziaria;
4. Minori tasse;
5. Margini operativi in aumento.
Vediamo nel dettaglio ciascuna di esse.
Per migliorare il turnover ratio occorre che le aziende aumentino il fatturato mantenendo invariate le proprie risorse (o che queste aumentino meno della crescita del fatturato). È possibile? Gli assets aziendali sono essenzialmente di tre tipi: crediti verso clienti, rimanenze ed immobilizzazioni materiali (tralasciamo per semplicità le immobilizzazioni immateriali). I crediti verso clienti tipicamente crescono in maniera molto simile alle vendite, sia che queste aumentino per maggiori prezzi o per maggiori volumi. Le rimanenze possono essere gestite in maniera più efficiente, ma nel lungo periodo anch’esse aumentano in maniera proporzionale alle vendite. Infine, in periodi di inflazione il fatturato sale mentre le attività immobilizzate rimangono costanti. Ma queste hanno un ciclo di vita finito e devono essere sostituite: pertanto, anche gli investimenti aumenteranno di valore. Complessivamente, l’inflazione in sé e per sé non permette un significativo miglioramento del turnover ratio.
Vediamo il secondo punto. In genere maggiore inflazione significata tassi d’interesse più alti, e quindi il debito diviene più caro, non meno costoso. Nella situazione attuale è inoltre difficile prevedere tassi d’interesse in discesa nel medio termine, dato che sono già ai minimi storici.
Per il terzo punto, la leva finanziaria è stato il fattore che ha causato i problemi recenti e quindi il sistema bancario dovrebbe aver imparato ad essere più prudente. Inoltre le aziende di elevata qualità (quelle con il migliore ROE) sono esattamente quelle che hanno meno bisogno di debito, mentre sono quelle a bassa redditività che ne hanno più bisogno. Anche qui, poche speranze di aumentare il ROE del mercato in aggregato.
Per quanto riguarda le tasse, la maggior parte dei paesi sviluppati dovranno attuare in futuro (volenti o nolenti) politiche fiscali restrittive, ed è quindi improbabile che ci siano significative diminuzioni della tassazione a livello complessivo.
Infine, rimangono i margini operativi. Prima di arrivare ai profitti netti, ci sono molte altre voci da considerare: oltre alle tasse, ci sono infatti i costi operativi quali lavoro, materiali, costi energetici, interessi, … In periodi di alta inflazione tutti questi costi aumentano ed incidono in maniera negativa sui margini reddituali.
Le azioni (in aggregato) non sono quindi necessariamente la miglior classe d’investimento in un periodo di alta inflazione.
Storicamente, invece, le materie prime hanno mostrato una correlazione positiva con le variazioni annuali dell’inflazione e, soprattutto nel breve periodo, tendono a muoversi nella stessa direzione. Questo è tuttavia un argomento circolare: in realtà è l’aumento del prezzo di molte commodities (energia, beni agricoli) che causa un aumento dell’inflazione (e non viceversa), in quanto queste materie prime costituiscono gran parte del paniere di beni utilizzato per misurare l’andamento dei prezzi al consumo.
Per coloro che ritengono che in futuro l’inflazione sarà in aumento è consigliabile spostare parte del portafoglio da attività finanziarie a reali. All’interno della parte azionaria, è consigliabile investire in società che sono in grado di passare gli aumenti dei prezzi ai propri clienti, con costi meno sensibili all’inflazione e poche immobilizzazioni materiali. Per quello che riguarda le obbligazioni, è opportuno concentrarsi sui titoli di stato a breve termine, su quelli inflation-linked e su strumenti corporate a tasso variabile. 

* Consulente Finanziario Indipendente che offre servizi di advisory di portafoglio ed analisi di strumenti finanziari incentrati sulla pura consulenza in assenza di conflitto di interessi. Per maggiori informazioni: www.kcapitalgroup.com
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS