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Tre tipi di consulenza finanziaria: quale scegli?
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Articolo di Alessandro Pedone
5 novembre 2024 12:41
 
“Un sistema umano può essere aiutato
solo ad aiutarsi da sé”
Edgard Schein
“L’ascolto è la bussola del consulente”
Edgard Schein
“Prima di convincere l’intelletto occorre
toccare e predisporre il cuore”
Blaise Pascal


Cosa fa, precisamente, un consulente finanziario o - ancora meglio - cosa dovrebbe fare?
Uno dei più autorevoli teorici contemporanei del concetto di consulenza è lo psicologo Edgar Schein, morto a gennaio dell’anno scorso e per molti anni professore al MIT. Fra l’altro, è l’ideatore del concetto di “cultura aziendale” e di “consulenza di processo”. Schein identificava varie tipologie di consulenza, che si distinguono per il grado di chiarezza sia nel problema che si vuole risolvere, sia nelle soluzioni riconosciute dagli esperti del settore.

Il primo tipo di consulenza è quella strumentale alla vendita. In questa forma di consulenza c’è poca chiarezza: è un po' come camminare nella nebbia.   Il cliente crede di sapere cosa vuole risolvere attraverso il consulente, ma manca di una chiara comprensione del contesto che gli consenta di identificare cosa sia veramente meglio per lui.  Non c’è chiarezza neppure sui reali obiettivi che persegue il consulente/venditore il quale in parte vuole aiutare il cliente, ma prevalentemente è interessato a concludere la vendita. Il risultato è un rapporto spesso opaco.
Questa è, purtroppo, la realtà attuale di quasi tutte le situazioni di consulenza finanziaria in Italia (oltre il 95%) svolte presso gli sportelli bancari o attraverso consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, che sono agenti di commercio retribuiti attraverso le provvigioni sulle commissioni dei prodotti e servizi finanziari che l’agente riesce a collocare. 

Schein identifica almeno altri due tipi di rapporti di consulenza: la consulenza dell’esperto e la consulenza di processo. 

La consulenza dell’esperto è come prendere un taxi: sappiamo bene dove vogliamo andare e come farlo. C’è grande chiarezza sul problema oggetto di consulenza e su come risolverlo. La soluzione non è accessibile al cliente, ma la comunità degli esperti ha un accordo ragionevole su cosa si deve fare per risolvere il problema. Il consulente, come un medico che formula una diagnosi, deve comprendere il problema nei dettagli (cioè fare l'anamnesi) e fornire la soluzione che il cliente dovrà seguire (dare la ricetta).

Una tipica consulenza dell’esperto è quando andiamo da un meccanico per far riparare la macchina. Oppure da un ingegnere civile per fare i calcoli strutturali per costruire un edificio. 

La consulenza di processo, invece, è come camminare insieme ad una guida lungo un sentiero mai esplorato da nessuno. Il problema, inizialmente, è poco chiaro anche al cliente, e quando viene identificato, non c'è un sufficiente accordo nella comunità scientifica su come risolverlo. Il ruolo del consulente è di guidare il cliente nella scoperta, facilitando il processo che porta alla soluzione più adatta per lui. Qui, il consulente non offre risposte preconfezionate, ma piuttosto accompagna il cliente affinché scopra da solo la strada giusta, adattando ogni passo alla propria situazione unica.

Chiarite le principali tipologie di consulenza, la domanda che si pone è la seguente: lasciando da parte la consulenza strumentale alla vendita, la vera consulenza finanziaria è una consulenza dell'esperto, oppure una consulenza di processo?

Il mito dei “portafogli efficienti”
Fino ad una ventina d'anni fa, in particolare prima della grande crisi finanziaria del 2008, si tendeva a pensare che vi fosse un modello matematico/statistico, chiamato pomposamente "Modern Portfolio Theory", che fornisse delle indicazioni "scientifiche" per realizzare portafogli finanziari chiamati in letteratura "efficienti". Henry Markowitz, scomparso recentemente, ha preso il Premio Nobel per l'economia su questa cosa ed altri premi Nobel come William Sharpe o Eugene Fama hanno contribuito a creare tutta un'infrastruttura teorica che dovrebbe servire a realizzare portafogli finanziari teoricamente "efficienti", dato un determinato "livello di rischio". 

Quando ho iniziato la professione di consulente finanziario indipendente, circa un quarto di secolo or sono, ho creduto fortemente a questi modelli matematico/statistici ed inizialmente li ho molto utilizzati. Ingenuamente, ho creduto che la finanza potesse essere una scienza. I numeri hanno un fascino rassicurante. Come ha scritto lo scienziato americano Joseph Mackin: "Si possono esprimere con equazioni concetti in modo impressionante, persino arrogante, che sono talmente insensati da imbarazzare l'autore stesso, se fossero espressi a parole". Per me è molto triste da pensare, ma a tutt’oggi, ancora tanti professionisti della finanza sono convinti che quell’approccio sia l’unico modo “corretto” di costruire portafogli finanziari.

La grande crisi finanziaria del 2008 mi ha portato a studiare molto più approfonditamente la materia ed ho continuato a farlo per più di un decennio. Ho scoperto che prima della "sbornia razionalista”, che ha preso l'economia e - di conseguenza - la finanza, in particolare a partire dagli anni '70, c'era tutto un pensiero economico che recentemente è stato molto rivalutato e che vedeva l’economia (e di conseguenza la finanza) più come una scienza sociale, che come uno scimmiottamento della fisica. 

Uno dei principali esponenti di questo filone di pensiero è stato Herbert Simon un economista, psicologo e informatico statunitense, il quale, tra l'altro, ha dato contributi pionieristici anche nel campo dell'intelligenza artificiale. Nel 1975 ricevette il Premio Nobel per l'Economia per la sua ricerca sul processo decisionale in condizioni di incertezza radicale. Simon sviluppò il concetto di "razionalità limitata", suggerendo che le persone usano regole empiriche - cioè euristiche -  per trovare soluzioni "sufficientemente buone" piuttosto che ottimizzare in modo completo, dato che è impossibile conoscere tutte le informazioni rilevanti.

La parola chiave qui è incertezza. A partire dagli anni '70 e fino alla grande crisi finanziaria, in finanza si è tentato in tutti i modi di ridurre l'incertezza a rischio. Nella teoria delle decisioni c'è una differenza fondamentale tra rischio ed incertezza, ma la maggioranza degli studiosi nel campo della finanza, per svariati decenni, l’hanno ignorata.

Non si tratta di una mera questione terminologica, ma è un questione sostanziale che implica scelte operative radicalmente diverse.

L'economista Frank Knight è stato quello che ha maggiormente esplorato questa dicotomia tra rischio ed incertezza. Si parla di rischio quando non si conosce cosa può accadere in futuro, ma conosciamo almeno quali sono tutte le possibilità e sappiamo dare una distribuzione di probabilità a ciascun evento che può accadere. Sono molte poche le situazioni nella vita reale in cui ci troviamo in condizioni di rischio, in genere sono artificialmente create. Il lancio di un dato o il giro di una roulette sono situazioni di questo tipo. L'incertezza, invece, è quando non solo non sappiamo cosa accadrà in futuro, ma non sappiamo neppure quali potrebbero essere tutti gli scenari possibili e quindi non possiamo conoscere neppure la distribuzione delle probabilità. Per usare un gioco di parole: non sappiamo neppure cosa non sappiamo.

Le decisioni finanziarie sono indubbiamente un campo dominato dall'incertezza, non dal rischio.  Solo recentemente questa tesi ha iniziato a ritrovare un forte spazio nel dibattito accademico e specialistico. Nel marzo del 2020, in piena pandemia, è uscito un libro dei due più importanti economisti inglesi, Marvyn King e John Kay dal titolo "Radical Uncertainty". Il primo autore, King, è stato Governatore della Banca d’Inghilterra per 10 anni fino al 2013. Il secondo è uno degli economisti inglesi più importanti e ha insegnato alla London School of Economics e a Oxford. Dal punto di vista italiano, potremmo dire che è un po' come se Mario Draghi e Mario Monti scrivessero un libro insieme. L’opera, purtroppo, non è stata tradotta in italiano e per questo ho pubblicato su LinkedIn una serie di 5 lunghi articoli che riportano un'ampia sintesi e traduzione delle 5 parti che lo compongono. 

Il libro fornisce un'impressionante serie di argomentazioni che dimostrano come lo studio dell'economia ed in particolare della finanza, a partire dagli anni '70, abbia preso una china pericolosa, scambiando i modelli matematici per la realtà.  Invece di usare i modelli, per quello che sono, cioè delle semplificazioni che possono essere essere utili in alcune circostanze, si sono costruite una serie di teorie prescrittive, basate su questi modelli, sempre più sganciate dalla realtà, come se la realtà fosse nei modelli e non in ciò che effettivamente accade. Parafrasando la famosa  frase attribuita ad Hegel: “Se i fatti non collimano con i “modelli”, tanto peggio per i fatti”. Purtroppo, però, ciò che sposta i numeri sui nostri conti in banca sono i fatti, non i modelli accademici. Per fortuna, negli ultimi 15 anni, anche se a livello operativo l'influenza delle vecchie teorie è ancora molto forte, a livello accademico si sta comprendendo sempre di più che prendere decisioni finanziarie significa, prima di ogni altra cosa, prendere decisioni in condizioni di incertezza. 

Non può esservi quindi alcun dubbio che, almeno per quanto riguarda l’aspetto centrale della consulenza finanziaria, non esiste nella comunità scientifica un ragionevole accordo su come si debbano fare le scelte finanziarie. Ci sono indubbiamente delle linee guida di massima (ad esempio il principio della diversificazione), ma non si tratta di un campo nella quale si possa applicare la consulenza dell’esperto se non per alcuni dettagli. 

Come si lavora con l’incertezza?
L’incertezza si affronta essenzialmente strutturando una narrazione funzionale sia su sé stessi che sui tutti i possibili scenari ragionevolmente ipotizzabili e realizzando un progetto in grado di adattarsi a tutti questi scenari. Semplificando, forse eccessivamente, ma solo a fini esplicativi, bisogna sempre avere sia il piano A che il piano B. In condizioni di incertezza, la priorità non è massimizzare alcuni parametri ipotizzando che si realizzi un certo scenario, ma accertarsi di essere in grado di sopravvivere efficacemente a qualsiasi scenario che si possa ragionevolmente ipotizzare ex-ante. Accertato che tutti gli scenari ragionevolmente ipotizzabili ci consentano comunque di avere un risultato accettabile, allora si proverà a trarre il meglio possibile dai restanti scenari. 

Le decisioni finanziarie hanno certamente anche una componente tecnica, che può essere affrontata attraverso una “consulenza dell’esperto”, ma gli aspetti fondamentali della decisione, proprio perché la decisione riguarda l’incerto, riguardano essenzialmente aspetti psicologici.

Volendo ridurre il tutto all’essenza: si tratta di definire un personalissimo equilibrio tra la paura di perdere soldi e la paura di perdere opportunità. 
Il consulente finanziario tradizionale, inteso come “l’esperto”, può apportare nel processo decisionale alcune competenze tecniche, come ad esempio la conoscenza dei vari strumenti finanziari e dei meccanismi basilari del funzionamento dei mercati,  la minimizzazione dei costi, della tassazione, alcuni aspetti giuridici legati alla pianificazione successoria o previdenziale, ecc. Si tratta di un corpus di conoscenze certamente utili ed importanti, ma non decisive.

Queste conoscenze tecniche sono simili a quelle di un dottore commercialista nel campo della gestione aziendale. Un commercialista può senza dubbio apportare un contributo utile nella gestione dell’azienda. Le scelte strategiche, però, possono essere prese solo dall’imprenditore o almeno scoperte in un percorso di consulenza che vede la partecipazione attiva dell’imprenditore. Non le può decidere un dottore commercialista, dalla sua scrivania, come invece può compilare la dichiarazione IVA o la nota integrativa del bilancio.

Similmente, un consulente finanziario che si limiti a fare una consulenza dell’esperto - se è onesto con il cliente e con sé stesso - non può apportare un contributo decisivo nelle scelte finanziarie di tipo strategico, ovvero decidere quanta incertezza mettere in portafoglio al fine di massimizzare il rendimento atteso e come gestire questa incertezza in funzione delle caratteristiche, anche psicologiche dell’investitore. 

Le scelte finanziarie strategiche, se fatte in modo realmente consapevole, sono indissolubilmente legate alle scelte di vita dell’investitore. Bisogna rispondere a domande molto impegnative alle quali non è affatto facile rispondere da soli. Ad esempio:  come può, concretamente, il denaro migliorare la mia vita e quella dei miei cari?  Quali sono le priorità di tipo economico e finanziario per me e la mia famiglia? Quali sono i miei obiettivi di vita collegati al denaro? È indispensabile anche indagare sugli aspetti emotivi legati alle possibili fluttuazioni del patrimonio esposto ai mercati finanziari. Come reagirei ad un calo di un terzo del patrimonio nel giro di un anno?  E nel caso di un aumento di un terzo? Mi precipiterei a vendere per “portare a casa il guadagno”? 

Sono tutte domande alle quali è molto difficile rispondere da soli. Un consulente finanziario, se ha aggiunto alle sue competenze tecniche anche competenze di tipo psicologico/relazionale, può dare un contributo decisivo nel far emergere dal cliente stesso le decisioni finanziarie fondamentali realmente adatte alle sue caratteristiche. Successivamente, potrà dare anche un contributo più tecnico, ma le scelte fondamentali saranno emerse all’interno di una consulenza di processo, non di una consulenza dell’esperto. 

Nei paesi anglosassoni, da una ventina d’anni, è emersa la figura del consulente finanziario che fa un lavoro di questo tipo. Esiste perfino una certificazione professionale (in quelle nazioni prevale il concetto di certificazione professionale rispetto a quello di albo professionale) che si chiama Registered Life Planner®. Questa certificazione si  concentra appunto più sull’aspetto umano della pianificazione finanziaria, rispetto a quello matematico/statistico. 

È possibile una consulenza finanziaria di processo anche in Italia?
In Italia, i consulenti finanziari che interpretano la consulenza finanziaria come consulenza di processo si contano ancora sulle dita di una mano. Sono molti anni che ho intrapreso questa strada, insieme ai colleghi della società di consulenza finanziaria indipendente che ho co-fondato ormai un quarto di secolo fa. Questo modello ci porta enormi soddisfazioni. La maggioranza dei colleghi, però, mi guarda con un misto di sospetto e incredulità. Qualcuno, in privato, mi rivolge parole di ammirazione. Altri, in pubblico, lanciano provocazioni del tipo: "I clienti vanno da un consulente finanziario per guadagnare, non per farsi psicanalizzare...". La provocazione è comprensibile. Coloro che, per tutta la loro vita professionale, non hanno fatto altro che parlare di rendimenti, confronti con benchmark, asset allocation e cose del genere, si trovano spiazzati ad affrontare argomenti completamente diversi. Si tratta anche del solito problema del martello e dei chiodi. Il famoso psicologo Abraham Maslow, conosciuto anche nell’ambiente finanziario per la famosa piramide dei bisogni, diceva: "Chi ha un martello in testa, tende a vedere chiodi ovunque". Se gli strumenti operativi di un consulente sono l'analisi tecnica o fondamentale dei mercati finanziari e le varie teorie per la costruzione dei portafogli finanziari, che muovono tutte dall'obiettivo di ottimizzare in modo matematico/statistico certi parametri (in genere il rendimento a parità di oscillazione), è evidente che quel professionista tenderà a pensare che tutto ciò che interessa al cliente sia massimizzare il rendimento a parità di "rischio" (definito come lui lo definisce, ovvero l’oscillazione dei prezzi).

La mia esperienza professionale, invece, mi ha portato a verificare che – a parte qualche caso patologico – per gli investitori il guadagno è uno strumento, un mezzo, per raggiungere altri obiettivi. Quando il consulente indaga nei modi appropriati su quegli obiettivi ed è in grado di ascoltare realmente (cosa non scontata... ascoltare è un’arte che si apprende e si raffina negli anni), i clienti sono molto interessati ed emergono aspetti profondamente significativi che consentono di sviluppare progetti d’investimento realmente su misura.

Quando iniziai la professione di consulente finanziario indipendente, nei primi anni 2000, quelli che allora si chiamavano "Promotori Finanziari" mi dicevano che i clienti non avrebbero mai capito che la consulenza si doveva pagare, ma io avevo visto negli USA che i clienti pagavano normalmente un Financial Planner fee-only. Certo, c’è voluto molto tempo, ma oggi è indubbio che i clienti più evoluti riconoscono il valore di una consulenza indipendente e sono disposti a pagarla. 

Oggi, la maggioranza dei consulenti, sia collegati alle banche che indipendenti, mi dicono che i clienti vogliono parlare di rendimenti, costi, strumenti finanziari e non vogliono sentir parlare di obiettivi e cose del genere. Sono convinto che fra qualche anno sarà molto più chiaro anche ai consulenti che i clienti sono indotti a parlare di quelle cose, perché è ciò che i consulenti pongono loro in testa. I clienti sono interessati ai loro bisogni di vita, non alle questioni tecnico-numeriche della finanza. Certo, se un consulente si presenta dicendo (o facendo capire) che lui è più bravo di altri a far rendere i soldi, è ovvio che poi il cliente parlerà principalmente di quello. Ma non perché è ciò che realmente interessa al cliente, ma perché è ciò che il consulente si è proposto di fare.

Come vent’anni fa, non sono i clienti a non essere pronti. Sono i consulenti a non essere pronti!

Si dice che ogni cambiamento attraversi tre fasi: prima è ridicolizzato, poi contrastato ed infine accettato come ovvio. Personalmente, credo che siamo all’inizio di un nuovo cambiamento nel mondo della consulenza finanziaria. Come per la consulenza indipendente, non sarà per tutti. Inizialmente sarà per la parte più evoluta del mercato, ma gradualmente anche la massa capirà che l’unico modo sensato per investire è partire dall’analisi seria dei reali bisogni di vita per i quali investiamo.
 
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