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Investitori finanziari. De docta ignorantia
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Editoriale di Alessandro Pedone
25 maggio 2011 8:45
 

E, andandomene via, dovetti concludere meco stesso che veramente di cotest’uomo ero più sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo. (*)




Nello scorso editoriale abbiamo parlato di un programma di formazione finanziaria rivolto agli investitori non professionisti. Chiunque organizzi un programma del genere, se vuole essere utile ai partecipanti, deve avere ben presente un pericolo insidioso che in inglese prende il nome di overconfidence e che potremmo tradurre con “eccesso di fiducia”. Sintetizzando al massimo, possiamo affermare che occuparsi di finanza significa, prima di tutto, “assumere decisioni in condizioni di incertezza”. Altre volte abbiamo ribadito come l'elemento caratterizzante della finanza non sia il rischio, bensì qualcosa di peggiore, ovvero l'incertezza (per approfondimenti sul tema si legga qui).
Il risultato delle decisioni che assumiamo, in campo finanziario, dipende in misura determinante da fattori non conoscibili. Ciò significa che è inutile studiare perché tanto è tutto imprevedibile? Ovviamente no. Ci sono una serie di informazioni che ci aiutano a prendere decisioni, ex-ante, migliori, ma non potranno mai eliminare l'incertezza di base che caratterizza il mondo della finanza. In altre parole, la formazione finanziaria ci può aiutare a sbagliare un po' di meno.
E qui veniamo al tema: quanto meno?
Dobbiamo introdurre una distinzione: errori legati ad un andamento inatteso dei mercati finanziari, errori legati agli strumenti utilizzati per investire. Mentre sul primo aspetto la formazione non riduce in maniera significativa gli errori, conoscere gli strumenti per investire ci permette almeno di eliminare quella parte di errori che prescinde dall'andamento del mercato.
In altre parole, se uno strumento finanziario è inefficiente il mercato può salire o scendere, ma se sale io guadagno meno e se scende io perdo di più. Questo genere di errori si possono evitare.
Non dobbiamo, però, cadere nella facile illusione che più studiamo i mercati finanziari e maggiormente siamo in grado di prevederne l'andamento. I mercati finanziari sono e restano sostanzialmente imprevedibili a prescindere dal livello di conoscenze che riusciamo ad incamerare riguardo ad essi.
Sono ormai numerosi gli studi che mostrano come la mente umana abbia la naturale tendenza a sovrastimare l'impatto delle informazioni che acquisiamo nel migliorare la qualità delle scelte in condizioni di incertezza. E' il fenomeno al quale accennavo in apertura dell' “eccesso di fiducia”.
Da questo punto di vista un percorso di formazione finanziaria non progettato correttamente potrebbe essere addirittura dannoso!
Gli investitori consapevoli di essere totalmente ignoranti in campo finanziario sono naturalmente molto prudenti e diffidenti. Questa diffidenza, questa forte paura di sbagliare, conduce sovente a scelte estremamente conservative, magari molto inefficienti (e quindi comunque sbagliate), ma almeno non devastanti. Un investitore che ha l'illusione di poter prevedere come si muovono i mercati finanziari (“adesso è il momento di comprare... adesso di vendere”) può fare danni irreparabili.
E' questo il caso dei corsi di trading rivolti ad investitori del tutto inesperti.
In alcuni di questi corsi si forniscono infarinature su alcuni strumenti apparentemente affascinanti che si utilizzano in finanza per tentare di fare previsioni sui mercati finanziari. Alla fine di questi corsi i partecipanti hanno l'impressione di aver capito, se non tutto, almeno le basi ed invece non sanno quasi niente! La cosa più pericolosa è che iniziano a pensare che più studiano e più precise potranno essere le loro previsioni. Questo è estremamente pericoloso, tanto è vero che i risultati dei trader sono, complessivamente, semplicemente disastrosi. Charles Schwab, il fondatore di una delle prime grandi realtà finanziarie dedicate al trading on-line soleva dire che i trader sono come le farfalle, con la bella stagione accorrono numerose, con il freddo muoiono a migliaia e poi con la bella stagione ritornano di nuovo. La percentuale di trader che si rovinano è molto significativa. La grande maggioranza “per fortuna” (si fa per dire) perde semplicemente moltissimi soldi, ma non arriva a rovinarsi. Solo una minoranza, inferiore al 5%, riesce a guadagnare. Si tratta di quei trader che hanno ben capito che i mercati sono del tutto imprevedibili ed adottano le adeguate strategie di money-management unite, solitamente, ad approcci sistematici. Ma qui il discorso ci porterebbe fuori tema.
Purtroppo il tema dell' ”eccesso di fiducia” riguarda anche (e forse soprattutto) i così detti esperti della finanza. Gli esperti, infatti, sono i soggetti maggiormente esposti ad un bombardamento di informazioni di ogni genere. Notizie, studi, grafici, serie di dati. I professionisti della finanza corrono costantemente il rischio di sovrastimare il valore di tutte queste informazioni sulla qualità delle scelte che fanno o che devono suggerire ai propri clienti.
Personalmente, come piccolo “antidoto” a questo pericolo, sempre incombente, da anni tengo sulla mia scrivania una piccola statuetta di Socrate per ricordarmi che l'unica casa di cui sono veramente certo è di non sapere.
 
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(*) Da l'Apologia di Socrate, del quale riportiamo un brano più ampio. Nel racconto di Platone, Socrate espone la tesi del “so di non sapere” nel momento più drammatico della sua vita, durante il processo che lo porterà a bere la cicuta, e quindi morire, per la condanna a morte. Ritengo che interiorizzare questo brano, valga più di 10 corsi di finanza. Naturalmente le evidenziazioni sono aggiunte.
 
Platone, Apologia, 20 e-23 c
1. [20 e] [...] Della mia sapienza, se davvero è sapienza e di che natura, io chiamerò a testimone davanti a voi il dio di Delfi. Avete conosciuto certo Cherefonte. Egli fu mio [21 a] compagno fino dalla giovinezza, e amico al vostro partito popolare; e con voi fu esule nell’ultimo esilio, e ritornò con voi. E anche sapete che uomo era Cherefonte, e come risoluto a qualunque cosa egli si accingesse. Or ecco che un giorno costui andò a Delfi; e osò fare all’oracolo questa domanda: – ancora una volta vi prego, o cittadini, non rumoreggiate – domandò se c’era nessuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che più sapiente di me non c’era nessuno. Di tutto questo vi farà testimonianza il fratello suo che è qui; perché Cherefonte è morto.
2. [b] Vedete ora per che ragione vi racconto questo: voglio farvi conoscere donde è nata la calunnia contro di me. Udita la risposta dell’oracolo, riflettei in questo modo: “Che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma? Perché io, per me, non ho proprio coscienza di esser sapiente, né poco né molto. Che cosa dunque vuol dire il dio quando dice ch’io sono il più sapiente degli uomini? Certo non mente egli; ché non può mentire”. – E per lungo tempo rimasi in questa incertezza, che cosa mai il dio voleva dire. Finalmente, sebbene assai contro voglia, mi misi a farne ricerca, in questo modo. Andai da uno di [c] quelli che hanno fama di essere sapienti; pensando che solamente così avrei potuto smentire l’oracolo e rispondere al vaticinio: “Ecco, questo qui è più sapiente di me, e tu dicevi che ero io”. – Mentre dunque io stavo esaminando costui, – il nome non c’è bisogno ve lo dica, o Ateniesi; vi basti che era uno dei nostri uomini politici questo tale con cui, esaminandolo e ragionandoci insieme, feci l’esperimento che sono per dirvi; – ebbene, questo brav’uomo mi parve, sì, che avesse l’aria, agli occhi di molti altri e particolarmente di se medesimo, di essere sapiente, ma in realtà non fosse; e allora mi provai a farglielo capire, che [d] credeva essere sapiente, ma non era. E così, da quel momento, non solo venni in odio a colui, ma a molti anche di coloro che erano quivi presenti. E, andandomene via, dovetti concludere meco stesso che veramente di cotest’uomo ero più sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo. E quindi me ne andai da un altro, fra coloro che avevano fama di essere più sapienti di quello; [e] e mi accadde precisamente lo stesso; e anche qui mi tirai addosso l’odio di costui e di molti altri.
3. Ciò nonostante io seguitai, ordinatamente, nella mia ricerca; pur accorgendomi, con dolore e anche con spavento, che venivo in odio a tutti: e, d’altra parte, non mi pareva possibile ch’io non facessi il più grande conto della parola del dio. – “Se vuoi conoscere che cosa vuole dire l’oracolo, dicevo tra me, bisogna tu vada da tutti coloro che hanno fama di essere sapienti”. – Ebbene, o cittadini [22 a] ateniesi, – a voi devo pur dire la verità, – questo fu, ve lo giuro, il risultato del mio esame: coloro che avevano fama di maggior sapienza, proprio questi, seguitando io la mia ricerca secondo la parola del dio, mi apparvero, quasi tutti, in maggior difetto; e altri, che avevano nome di gente da poco, migliori di quelli e più saggi. Ma voglio finire di raccontarvi le mie peregrinazioni e le fatiche che sostenni per persuadermi che era davvero inconfutabile la parola dell’oracolo.
4. Dopo gli uomini politici andai dai poeti, sì da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli [b] altri; persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi domandavo che cosa volevano dire; perché così avrei imparato anch’io da loro qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli argomenti che i poeti stessi avevano poetato. E così anche dei poeti in breve conobbi questo, [c] che non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i più sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto. Allora io mi allontanai anche da loro, convinto che ero da più di loro per la stessa ragione per cui ero da più degli uomini politici.
5. Alla fine mi rivolsi agli artisti: tanto più che dell’arte loro sapevo benissimo di non intendermi affatto, [d] e quelli sapevo che li avrei trovati esperti di molte e belle cose. E non m’ingannai: ché essi sapevano cose che io non sapevo, e in questo erano più sapienti di me. Se non che, o cittadini di Atene, anche i bravi artefici notai che avevano lo stesso difetto dei poeti: per ciò solo che sapevano esercitar bene la loro arte, ognuno di essi presumeva di essere sapientissimo anche in altre cose assai più importanti e difficili; e questo difetto di misura oscurava la loro stessa sapienza. Sicché io, in nome dell’oracolo, [e] domandai a me stesso se avrei accettato di restare così come ero, né sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o di essere l’una cosa e l’altra, com’essi erano: e risposi a me e all’oracolo che mi tornava meglio restar così come io ero.
6. Or appunto da questa ricerca, o cittadini ateniesi, [23 a] molte inimicizie sorsero contro di me, fierissime e gravissime; e da queste inimicizie molte calunnie, e fra le calunnie il nome di sapiente: perché, ogni volta che disputavo, credevano le persone presenti che io fossi sapiente di quelle cose in cui mi avveniva di scoprire l’ignoranza altrui. Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare del mio nome come di un [b] esempio; quasi avesse voluto dire così: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore”. – Ecco perché ancor oggi io vo dattorno ricercando e investigando secondo la parola del dio se ci sia alcuno fra i cittadini e fra gli stranieri che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami non ci sia nessuno, io vengo così in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno. E tutto preso come sono da questa ansia di ricerca, non m’è rimasto più tempo di far cosa veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema [c] miseria per questo mio servigio del dio. [...]
 
(Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 38-41)
 
 
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