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L'Italia è da serie B?
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Articolo di Alessandro Pedone
10 luglio 2013 17:34
 
Ieri una delle tre principali agenzie di rating, Standard and Poor's, ha abbassato il giudizio sull'Italia da BBB+ a BBB. I giornali amano le espressioni colorite e quindi il vocabolo “spazzatura” è entrato prepotentemente nei titoli e negli articoli dei giornali. Quando il “rating” dell'agenzia finisce sotto il livello di BBB- (due gradini da adesso) si dice che il titolo è classificato come “non investment grade”, giornalisticamente si chiamano “junk-bond”, ovvero “obbligazioni spazzatura”.
Si tratta di un livello fondamentale perché sotto quel livello molti investitori istituzionali (fondi pensione, fondi comuni d'investimento, ecc.) sono costretti per regolamento a vendere i titoli.
La prima riflessione che bisognerebbe sempre fare, quando parliamo di rating, è l'affidabilità di questi giudizi che è alquanto discutibile. Negli anni è stato più volte dimostrato che questo metodo di valutazione dei titoli andrebbe completamente riformato, ma non si è mai fatto niente.
Andando a leggere le motivazioni addotte dall'agenzia si trovano diverse considerazioni anche condivisibili. La vicenda dell'Imu – ad esempio - è effettivamente ridicola. Il nostro fisco è decisamente sbilanciato sulle imposte sui redditi e poco sui patrimoni. Questo è decisamente uno dei fattori che contribuiscono alla strutturale debolezza del nostro tasso di crescita. In questo contesto, per ragioni di bieco consenso elettorale, il tema della politica italiana è come eliminare l'IMU sulla prima casa quando invece il tema dovrebbe essere una seria patrimoniale che implica quindi, fra le altre cose, una riforma del catasto che si attende da decenni.
 
Purtroppo in Italia ci sono tante altre cause che portano ad un declino di medio-lungo termine che appare ormai difficilmente scongiurabile. Il tema della corruzione, a tutti i livelli, non solo politico, ed il tema della catastrofe del sistema giudiziario sono i due nodi a mio avviso più importanti, sebbene poco citati dai report economico-finanziari. Sono i temi che stanno alla base anche di problemi più evidenti come l'evasione fiscale e la scarsa produttività delle nostre aziende e del sistema paese in generale.
 
Premesso che il PIL (Prodotto Interno Lordo), come indicatore economico, ha una serie di limiti enormi ed il fatto che venga utilizzato comunemente da tutti dimostra solo il livello di impazzimento generale della nostra classe dirigente, può essere utile fare una riflessione di lungo termine sul tasso di crescita del PIL in Italia. La media annua dell'ultimo decennio, negli anni '70 era intorno al 4%. Negli anni '80 era intorno al 3%, negli anni '90 sotto al 2%, negli anni 2000 era sotto l'1%. Adesso il tasso di crescita medio degli ultimi 10 anni è negativo! E' chiaro che questo è un fenomeno strutturale, non legato a questo o quel provvedimento. In parte, ma solo in parte, questo fenomeno è naturale. In tutte le nazioni sviluppate si è passati da tassi di crescita del 4 o 5% degli anni '70 all'1-2% attuali. Il problema dell'Italia risiede negli ultimi 20. La diminuzione della crescita del PIL negli anni '70 e '80 era fisiologica ed in linea con quella delle altre nazioni sviluppate. La Francia, ad esempio, passa da un tasso di crescita medio annuo decennale degli anni '70 pari al 5% ad un tasso del 3,5% dei primi anni '80. Un percorso simile lo fa la Germania che passa dal 4,5% circa degli anni '70 ai ad un 2,8% circa dei primi anni '80. Idem per gli Stati Uniti, che passano anche loro da un 4,2% ad un 3% circa.
Se però osserviamo gli ultimi 20 anni, vengono i guai per l'Italia.
Nei primi degli anni 2000 l'Italia cresceva ad un ritmo annuo medio, nei precedenti 10 anni, inferiore all'1%.
La Germania sopra era il 2%, Il Regno Unito al 2,5% e gli USA al 3%. Nel decennio successivo l'Italia ha avuto una crescita media annua pari a zero mentre Francia e Germania crescevano di circa l'1%, il Regno Unito quasi il 2% e gli USA, nonostante la crisi del 2008 ha avuto una crescita media annua negli anni 2000 dell'1,7%!
Negli ultimi 20 anni, l'Italia, mediamente, ha avuto un tasso di crescita inferiore alle altre economie sviluppate di oltre l'1% annuo circa. Questa è la vera causa del peso eccessivo del debito pubblico sul PIL. Se negli ultimi 20 anni l'Italia fosse cresciuta ai tassi degli altri paesi, il nostro PIL sarebbe più alto del 20% circa ed il rapporto debito/PIL quindi sarebbe simile a quello della Francia o del Belgio, pur comprendendo tutti gli sprechi che comunque ci sono stati.
 
Affinché l'Italia possa pensare di invertire la rotta servirebbero almeno 10 anni di politiche decenti (a partire da una vera riforma della giustizia, seri provvedimenti anti-corruzione, riforma della tassazione per spostare la fiscalità più sui patrimoni e meno sul lavoro e ridurre l'evasione fiscale, ecc.). Di queste politiche, al momento attuale, non se ne intravede neppure l'ombra. Per questa ragione, ritengo che l'Italia continuerà ad avere un tasso di crescita inferiore alle altre nazioni nell'ordine dell'1%. Ciò significa che quando l'economia in Europa riprenderà, l'Italia crescerà, ma crescerà molto meno delle altre nazioni e quando l'economia tornerà a decrescere, l'Italia decrescerà in maniera più accentuata.
 
L'Italia avrebbe molti fattori di forza sui quali agire. Il tessuto economico, composto da piccole e medie aziende è ancora un punto di forza notevole, sebbene mezzo tramortito dalla crisi del 2008 e quella attuale. La nostra cultura ed il nostro territorio hanno un potenziale di attrazione che viene sfruttato solo in piccola parte. La capacità creativa dell'Italia è semplicemente straordinaria. 
 
Nell'immediato, le cose non sono così drammatiche come riportano i media. Pur non nascondendo tutti i problemi strutturali di cui ho appena scritto, ci sono seri segnali di ripresa economica forniti dagli indicatori economici anticipatori. Tutte le volte che siamo nella fase di uscita da una crisi economica (se avessimo un minimo di memoria storica non dovrebbe essere difficile ricordare cosa si leggeva nei giornali nel 2009) si ha una sensazione di confusione perché i segnali anticipatori danno indicazioni di ripresa economica, mentre i dati congiunturali danno segnali sempre più negativi. Le due cose appaiono in contraddizione, ma nella realtà non lo solo. Un indicatore anticipatore decisamente affidabile è quello che viene chiamato giornalisticamente il “SuperIndice” (il nome corretto sarebbe, più prosaicamente, CLI: Composite Leading Indicator). Si tratta di un aggregato di 10 indici fra i quali: nuovi ordini; sussidi di disoccupazione; offerta di moneta; nuovi cantieri e permessi edilizi; spread tra titoli di Stato a 10 anni ed il tasso di finanziamento delle banche; attese dei consumatori; prezzi delle azioni, ecc. L'indice è rilevato mensilmente. L'ultimo dato disponibile è quello riferito a Maggio 2013.
Per poter rendere l'idea in maniera più efficace, ho prodotto un grafico con l'andamento di questo indicatore per l'Italia dal 1985 ad oggi, evidenziando con una banda gialla le fasi recessive dell'economia italiana. Per "recessione" intendiamo una decrescita del PIL per almeno due trimestri consecutivi. Per uscita dalla recessione intendiamo un incremento del PIL per almeno due trimetri consecutivi.

Non è mai accaduto che questo indice segnasse un recupero per sei mesi consecutivi (oggi siamo a 9 mesi consecutivi) senza che vi sia stata successivamente una crescita del PIL.
 
Naturalmente, nonostante la dimostrata affidabilità negli anni di questo indicatore, il futuro rimane sempre e comunque incerto. Ogni fase storica ha le sue caratteristiche. Si può osservare dal grafico, ad esempio, come nel 2001 l'incremento del SuperIndice portò effettivamente ad un uscita dalla fase di recessione, ma solo per ricadere poco dopo in una seconda fase recessiva (anticipata, ancora una volta, dal SuperIndice) per i noti fatti storici successivi all'11 Settembre 2001 (la così detta “guerra al terrorismo”) compresa la crescita del prezzo del petrolio.
 
Non possiamo quindi affermare con certezza che stiamo per uscire dalla fase recessiva, ma sicuramente ci sono ottime probabilità a meno che non intervengano fatti nuovi ed attualmente imprevedibili.
 
Mi ricordo benissimo, alla fine del 2009, quando ai miei clienti scrivevo cose simili relative a questo indicatore. Come si può osservare dal grafico soprastante anche allora il SuperIndice saliva da diversi mesi, ma i dati congiunturali segnavano una crisi economica nerissima. Mi ricordo bene alcuni articoli che mettevano in ridicolo questo indicatore profetizzando che la decrescita del PIL sarebbe continuata. Nella realtà alla fine del 2009 il PIL è iniziato a crescere, sebbene in maniera modesta (per i problemi strutturali di cui abbiamo già parlato) e questo è accaduto fino ad ottobre del 2011 (cosa che è stata anticipata dalla costante diminuzione del SuperIndice).
E' ragionevole attendersi che accadrà così anche questa volta.
 
Il vero problema, però, non è se usciremo – tecnicamente – dalla fase recessiva dell'economia. Per quanto ho sopra esposto, personalmente, sono abbastanza convinto che questo accadrà tra la fine dell'anno e l'inizio dell'anno prossimo. Il problema è che la crescita sarà una crescita largamente insufficiente a creare posti di lavoro ed un aumento dei redditi alle fasce medie.
In questo senso si può dire che per una parte importante degli italiani, la crisi del 2008 non è mai terminata, sebbene tecnicamente tra Giugno 2009 e Ottobre 2011 non siamo stati in recessione. Il rischio è che anche la prossima ripresa che potrebbe materializzarsi fra due o tre trimestri potrebbe essere troppo deboli affinché produca effetti percepibili alla parte più importante (e bisognosa) della popolazione.
 
Quindi, se vogliamo fare una informazione corretta non dobbiamo dire che tutto va male e sempre peggio, che non ci sono segnali di ripresa e via con la solita litania.
Dovremmo piuttosto fare un'analisi di lungo periodo e riconoscere che noi, da circa venti anni, cresciamo molto meno delle nostre potenzialità a causa di fattori strutturali che dovremmo avere la forza di aggredire, ma che non possiamo fare a causa di una classe politica di incapaci, compresi gli ultimi arrivati che gridano alla catastrofe. A causa di queste zavorre non sfrutteremo ancora una volta la ripresa che molto probabilmente avremo fra due o tre trimestri e quindi affronteremo la prossima crisi in una condizione di debolezza ancora più forte di quella che abbiamo attualmente.
 
Una parte del problema, purtroppo, è anche legata al fatto che i problemi politico-economici, non vengono quasi mai affrontati seriamente dall'informazione. E' molto più facile fare titoloni sensazionalistici che non analizzare le cose nel dettaglio. E questo avviene anche perché le persone, in generale, non vogliono ragionare sui problemi, ma preferiscono credere alle frottole che parlano alla “pancia” della gente, invece che alla testa, come la fantasmagorica restituzione dell'IMU...
 
In conclusione, quindi, resta la domanda del titolo: “L'Italia è da serie B”? Se guardiamo alla nostra capacità di crescere economicamente nel medio/lungo termine dobbiamo riconoscere che siamo da serie B. Se guardiamo alle nostre potenzialità, invece, abbiamo spazi di sviluppo enormi ed avremmo anche un prossimo ciclo economico positivo sul quale far leva. Ciò che ci manca, però, è una classe politica lungimirante che pensi al prossimo decennio e non alle prossime elezioni. 
 
 
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