Questo articolo nasce da un interessante e gradito feedback al mio articolo della scorsa settimana dal titolo:
“Come fare meglio degli indici di mercato”. Il commento è arrivato da uno YouTuber e blogger molto seguito che tratta anche di finanza personale (ma non solo, anche di pensiero critico, carriera lavorativa e tanto altro) di cui apprezzo molto il taglio diretto ed autentico con il quale affronta gli argomenti. Si chiama Giorgio, ma il suo nome “d’arte” è Mr. RIP (che sta per Retire In Progress) e dal 2016 traccia pubblicamente le sue entrate/uscite ed investimenti nel suo blog all’indirizzo
mr.rip. Invito caldamente a visitare sia il suo sito che il suo canale YouTube.
Si è formato una discreta cultura finanziaria da autodidatta ed è molto influenzato dal pensiero di un bravo portfolio manager americano che si chiama Ben Felix il quale è un forte sostenitore della gestione indicizzata o passiva (anche lui con un canale YouTube ed un Podcast molto seguito).
Giorgio mi ha scritto, riferendosi all’articolo precedente: “Essenzialmente dici che puoi battere gli indici se prendi un indice e rimuovi "le mele marce", come se fosse facile capire quali sono (assumendo EMH tutto è prezzato, se no sarebbero capaci tutti a trovare le mele marce)”. Per chi non lo sapesse EMH è un acronimo che sta per Efficient Market Hypothesis, ovvero la teoria dei mercati efficienti che postula che tutte le informazioni disponibili si riflettono immediatamente sul prezzo, rendendo impossibile realizzare sistematicamente extrarendimenti rispetto al mercato; ci torneremo in seguito in modo più approfondito.
Trascurando il fatto che il cuore dell’articolo della scorsa settimana non era affatto la possibilità di “togliere le mele marce” dall’indice (1), concentriamoci sulla domanda posta da Mr. RIP: è possibile “togliere le mele marce” dall’indice? Nel caso in cui fosse possibile, perché non lo fanno tutti? Ed ancora: i prezzi riflettono tutte le informazioni disponibili?
A ben guardare, per rispondere correttamente a queste domande dobbiamo porci una domanda più profonda:
cosa muove i mercati finanziari?
Se vogliamo essere investitori veramente consapevoli è necessario crearsi un’opinione radicata sul funzionamento dei mercati finanziari. Cosa spinge i prezzi al rialzo ed al ribasso? Perché in un dato momento, ci sono più compratori che venditori ed in un’altro momento è verò l’opposto? Quali sono le cause che stanno dietro agli acquisti degli operatori dei mercati finanziari?
La teoria
La teoria accademica maggiormente studiata che dovrebbe spiegare i movimenti dei mercati finanziari viene definita
Efficient Market Hypothesis (EMH). Uno dei principali fautori di questa teoria è Eugene Fama che l’ha ben descritta nel suo libro del 1970 “Efficient Capital Markets: A Review of Theory and Empirical Work”. Per decenni ha rappresentato la pietra miliare della finanza moderna. Questa ipotesi costituisce la principale giustificazione teorica dell’esistenza dei fondi indicizzati (e quindi anche degli ETF). La conclusione principale di questo impianto teorico è che
i prezzi delle attività finanziarie riflettono tutte le informazioni disponibili e per questo è impossibile, mediamente, “battere il mercato” applicando qualsiasi tipo di strategia. Sono stati scritte fiumi e fiumi di parole su questo argomento. Qui ci basti ricordare che il presupposto principale di questa teoria postula che gli operatori dei mercati finanziari sono razionali e che tutte le decisioni di acquisto e vendita che compiono hanno l’unico obiettivo di massimizzare i guadagni derivanti da questi investimenti. Da queste premesse ne deriva che l’unica cosa che veramente conta per muovere i mercati sono
le nuove informazioni che emergono e che incidono nelle valutazioni (razionali) degli operatori circa il prezzo “corretto”.
Sul piano teorico, questa ipotesi è stata messa in forte discussione (per usare un eufemismo) dall’emergere della cosiddetta finanza comportamentale, ed in particolare dalla
Teoria del Prospetto postulata da Kahneman e Tversky nel 1979. Questa teoria evidenzia il principale limite teorico della EMH, ovvero il fatto che gli esseri umani non sono affatto razionali nel prendere le decisioni e non puntano necessariamente a massimizzare l’utilità attesa. I sostenitori della EMH replicano che sebbene sia vero che alcuni postulati siano approssimazioni irrealistiche, le
conclusioni alle quali giunge la teoria sono comunque empiricamente dimostrate. In altre parole, decine e decine di studi dimostrerebbero che, applicando varie informazioni disponibili e considerando i costi di negoziazione e la tassazione, mediamente, non si riesce ad ottenere consistentemente extra-rendimenti, aggiustati per la volatilità, rispetto al rapporto rendimento/volatilità dell’indice.
Sebbene esistano diverse eccezioni ben documentate, le quali mostrano che selezionando alcune categorie di azioni si riesce ad estrarre un extra rendimento con una certa persistenza (2), l’ipotesi dei mercati efficienti si poggia su una realtà incontestabile: i mercati finanziari adeguano molto velocemente i prezzi alle nuove informazioni, e qualunque strategia che riuscisse a portare extra profitti per un certo periodo verrebbe velocemente applicata da tante persone, e per questo diverrebbe inefficace.
Per svariati anni il dibattito sulla validità o meno dell’ipotesi dell’efficienza dei mercati finanziari è andato avanti con alcuni punti a sfavore (prevalentemente sul piano teorico) e diversi punti a favore (prevalentemente sul piano sperimentale) fino a quando l’economista
Andrew Lo, che apprezza entrambe le teorie, non è riuscito a presentare un modello molto più completo della EMH che fa tesoro del meglio della due teorie.
Andrew Lo è
professore di finanza presso il MIT Sloan School of Management, una delle più prestigiose università del mondo. Usiamo le sue stesse parole espresse in una recente presentazione per introdurre la sue teoria. “L'idea di base è che il quadro tradizionale della finanza
è limitato, non è sbagliato, ma non abbraccia l'intera nostra esperienza e, in particolare,
è troppo concentrato sull'approccio quantitativo dei fisici nella modellazione delle dinamiche dei mercati finanziari e
non riconosce veramente il fatto che i mercati sono effettivamente un'entità organica, un insieme di individui che interagiscono tra loro”.
Andrew Lo ha proposto di sostituire l’ipotesi dei mercati efficienti, con l’ipotesi dei
mercati adattativi. Può sembrare un semplice gioco di parole, ma è qualcosa di completamente diverso. Il suo primo
paper completo su questo tema risale al 2004 e nel 2017 è uscito un suo libro molto approfondito dal titolo: “Adaptive market hypothesis” che purtroppo non è stato tradotto in italiano.
Sempre prendendo in prestito le parole del prof. Andrew Lo: “L'idea di base dietro i mercati adattivi è piuttosto semplice: si tratta di prendere i principi della biologia evolutiva e dell'ecologia e applicarli ai sistemi finanziari. Ovviamente, gli individui agiscono nel proprio interesse, ma
commettono errori. Ci impegniamo in atti di
razionalità limitata, impariamo ed evolviamo in base alle dinamiche di mercato, e alla fine le euristiche che utilizziamo sono ciò che danno luogo a cose come la competizione, l'adattamento, l'innovazione e, alla fine, le tipiche fluttuazioni dei mercati finanziari che osserviamo”
Secondo Andrew Lo, i mercati finanziari sono costituiti da “specie” di investitori molto diversi fra di loro, come, ad esempio, i fondi pensione, gli hedge fund (che a loro volta sono di moltissime specie), i fondi a gestione attiva (anch’essi in grande varietà di approcci), i fondi a gestione indicizzata, i fondi sovrani, i grandi investitori individuali, i piccoli retail, ecc. Tutte le specie di investitori si “nutrono” di rendimento, sono quindi in competizione fra di loro per estrarre una parte di rendimento dai mercati finanziari, ma ciascuno ha caratteristiche diverse. Ha diversi orizzonti temporali, “taglie” diverse che implicano effetti diversi sui movimenti dei prezzi, profilo di rischio diversi, gradi di razionalità diversi, ecc. La più grave semplificazione compiuta dall’EMH, quindi, non è tanto quella di considerare gli operatori finanziari come razionali e mossi solo dalla massimizzazione del rendimento (la Teoria del Prospetto dimostra che questo è chiaramente un errore), quanto quella di considerare che tutti gli agenti dei mercati finanziari sono uguali. La non completa razionalità degli operatori è solo una parte del problema. Per teorizzare correttamente come e perché si muovono i mercati finanziari è necessario considerare che esistono tipologie molto diverse di operatori finanziari le quali competono fra di loro per catturare la maggior parte di rendimento a loro possibile. Per un periodo di tempo prevale una certa specie che poi lascia il posto ad un altra, ecc.
I mercati finanziari, quindi, si muovo certamente, come prevedeva la EMH, sulla base delle notizie che giungono, ma questa è solo una piccola parte della realtà, la parte più importante della storia - che la EMH trascura completamente - è la dinamica che si sviluppa nell’interazione fra le varie specie di agenti dei mercati finanziari che “digeriscono” le varie informazioni (comprese quelle derivanti dai mercati finanziari stessi, relative all'andamento stesso dei prezzi, generando un classico sistema complesso non lineare) con modalità e tempistiche diverse perché hanno orizzonti temporali diversi e priorità diverse.
La pratica
Nel paragrafo precedente abbiamo visto che la vecchia teoria dei mercati efficienti, citata da Mr. Rip nel suo feedback al precedente articolo, è decisamente superata. Propone un argomento decisamente valido, ovvero il fatto che i prezzi si adattano velocemente alle nuove informazioni, ma è incompleta perché non prende in considerazione che esistono diverse tipologie di investitori (con differenti gradi di razionalità) e quindi la complessità delle dinamiche che si sviluppano dall’interazione di queste diverse “specie” di investitori.
Venendo alla pratica, c’è un fattore spesso molto sottovalutato che va precisato. Per la teoria classica, il prezzo esprime le opinioni di
tutti gli operatori finanziari, perché se qualche operatore valutasse il prezzo non corretto, in base alle informazioni disponibili, potrebbe sempre comprare o vendere facendo così adeguare il prezzo. Nel mondo reale, però, questo non è per niente vero! Gli operatori hanno dei limiti operativi in quanto non dispongono di fondi illimitati (in altre occasioni hanno fondi troppo rilevanti per occuparsi di titoli con micro capitalizzazione). Non possono comprare o vendere quando vogliono per gli importi che vogliono, come invece prevede la teoria. Nella realtà, il prezzo di mercato esprime solo la valutazione degli ultimi operatori che hanno effettivamente eseguito la negoziazione. Per la maggior parte dei titoli emessi, la maggioranza degli operatori non ha mai fatto una valutazione seria ed approfondita dello strumento perché in base ai propri filtri preliminari non è stato giudicato meritevole di approfondimenti. Poi esiste tutta una serie di operatori che magari hanno valutato lo strumento, ma non sono in grado di comprare (perché non hanno le disponibilità, oppure preferiscono impiegarle per alternative ritenute più valide), né desiderano vendere ai prezzi attuali. Quindi, l’assunto che i prezzi includono tutte le informazioni disponibili è chiaramente sbagliato. E’ vero, però, che questo assunto è una buona approssimazione della realtà nella maggior parte dei casi, ma bisogna anche sapere che periodicamente si presentano delle fasi nei mercati nelle quali il prezzo è portato a livelli palesemente assurdi da una combinazione di fattori.
L’esperienza di oltre vent’anni a contatto quotidiano con i mercati finanziari mi porta a classificare tre macro-tipologie di fattori che determinano, in pratica, il movimento dei prezzi.
Fattori tecnici. Spesso non si considera sufficientemente il fatto che non sempre gli operatori finanziari comprano o vendono strumenti finanziari in conseguenza di una libera scelta. Ci sono svariate circostanze tecniche per le quali gli operatori sono
obbligati a vendere o comprare. Un caso tipico sono tutti gli strumenti derivati, i quali prevedono che a determinate scadenze si debbano assolvere certi obblighi di negoziazione. Altro caso tipico, molto simile ai derivati, è quando vengono comprate le azioni con i soldi in prestito. Quando queste scendono oltre o un certo livello chi ha prestato soldi impone la vendita per rimborsare il finanziamento (margin call). Un altro esempio è il gestore di un fondo d’investimento che riceve dei riscatti dai clienti, lui non vorrebbe vendere, anzi magari vorrebbe acquistare, ma riceve dei riscatti ed è obbligato a vendere, così come può accadere l’inverso (riceve tante sottoscrizioni ed anche se pensa che le azioni siano care, non può tenere più di tanta liquidità in portafoglio ed è costretto a comprare). Esistono poi alcuni effetti macroeconomici che si comportano in modo simile a ciò che accade per le sottoscrizioni o rimborsi dei fondi, ma a livello dell’intero mercato. Le politiche delle banche centrali impattano sulla liquidità dell’intero sistema (come se ci fossero sottoscrizioni o riscatti a livello di intero mercato). In un certo senso, gli operatori sono “costretti” a comprare o a vendere anche se questo sembra assurdo. Abbiamo vissuto da poco gli anni nei quali le obbligazioni avevano rendimenti negativi e ciò nonostante venivano comprate da diverse tipologie di operatori finanziari. Il fattore tecnico per eccellenza consiste proprio nella quantità di compratori e venditori disponibili. Ad un certo punto tutti coloro che volevano comprare l’hanno già fatto ed il prezzo dell’attività necessariamente scende e viceversa. Per quanto ampio, il mercato non è infinito. Non c’è niente che può salire per sempre o scendere per sempre (a meno che l’emittente non fallisca, ovviamente).
Fattori psicologici. Gli operatori finanziari sono esseri umani ed è normale che le emozioni siano determinanti nella scelta. La finanza comportamentale ha mostrato ormai così tante evidenze in merito che è inutile insistere. Le emozioni hanno la caratteristica di essere contagiose. Per la mia esperienza, nei mercati finanziari, si sviluppano ciò che potremmo chiamare “emozioni collettive”.
Le medesime informazioni lette in un contesto di positività hanno un effetto sui prezzi completamente diverso rispetto a quello che avrebbero se lette in contesto nei quali gli operatori sono prevalentemente negativi.
I fattori psicologici hanno, per loro natura, una durata relativamente breve, che si può misurare nell’ordine di grandezza delle settimane o dei mesi, molto raramente durano anni (a meno che non siano rafforzati da nuovi fatti rilevanti).
Saper leggere i fattori psicologici del mercato è qualcosa che si acquisisce solo con l’esperienza ed ha sempre un elevato margine di errore.
Fattori fondamentali. Infine, i prezzi sono mossi anche (per fortuna!) dalla
convenienza oggettiva dell’investimento. E’ verissimo ciò che sosteneva il grandissimo economista John Maynard Keynes e cioè che “i mercati possono rimanere irrazionali più a lungo di quanto tu possa restare solvibile” ma, al tempo stesso, è vero che ad un certo punto, quando le condizioni tecniche e psicologiche (che per loro stessa natura sono mutevoli) cessano di andare nella direzione che ha portato i prezzi verso l’eccesso, emergono i fattori fondamentali, le valutazioni razionali. E’ vero che gli operatori finanziari non sono dei calcolatori, ma è anche vero che - per quanto limitata - hanno una loro razionalità e come!
I titoli che sono stati per troppo tempo trascurati iniziano ad essere visti con un diverso fattore psicologico e le forze tecniche che ne rendevano difficile gli acquisti (magari per scarsità di liquidità) svaniscono rendendoli gli acquisti più frequenti. Accade naturalmente anche l’esatto inverso. Un titolo (o un intero mercato) che viene portato a valutazioni eccessive, a causa di una euforia diffusa e/o grandi disponibilità di liquidità, ad un certo punto esaurisce il numero di compratori, il clima di euforia svanisce, oppure le condizioni di grandi disponibilità di liquidità mutano ed ecco che le valutazioni fondamentali tornano a farsi preponderanti ed il titolo scenderà rovinosamente. Mentre i fattori psicologici tendono ad avere una influenza di breve/medio periodo, i fattori fondamentali tendono ad avere una influenza che si misura nella scala di grandezza degli anni. Il caso più clamoroso che si può citare è quello delle azioni giapponesi negli anni ‘80 del secolo scorso. L’indice Nikkei passò da circa 7 mila punti a quasi 39 mila punti nello spazio di un decennio. Non stiamo parlando di una singola azione come potrebbe essere Tesla, parliamo di un paniere molto diversificato di azioni. Ad un certo punto le azioni Giapponesi pesavano sull’indice mondiale per circa il 40% (adesso pesa per circa il 5%)! Questo eccesso di valutazione provocò il ritorno sotto i 10 mila punti nel giro di pochi anni e per oltre venti anni non è mai tornato ai livelli precedenti.
I tre fattori elencati sopra (tecnici, psicologici e fondamentali) si combinano costantemente, generando cicli di breve periodo, di medio e di lungo periodo. I cicli di lungo periodo si compongono di più cicli di medio periodo i quali, a propria volta, si compongono di più cicli di breve periodo. L'espressione “cicli” non deve trarre in inganno. Non significa che è qualcosa di prevedibile in modo dettagliato, nella tempistica o nella misura. Va inquadrato più come una tendenza, una forza, che si può esprimere in modi abbastanza diversi a seconda delle condizioni del momento.
E quindi?
Concludendo, non è vero che i mercati finanziari prezzano correttamente tutte le informazioni. Al tempo stesso non è affatto facile sfruttare queste informazioni, non correttamente prezzate, per realizzare extra-profitti perché le dinamiche che scaturiscono dalle varie tipologie di investitori che si alternano nei mercati sono altamente imprevedibili.
E’ certamente possibile eliminare le “mele marce” dall’indice, ma questo non può garantire che la selezione produca un miglior rendimento corretto per la varianza. Può porre delle buone premesse affinché questo accada, ma non garantisce niente.
L’approccio indicizzato (detto anche passivo) agli investimenti è certamente l’approccio più appropriato per la grande maggioranza degli investitori, specialmente perché implica una forte riduzione dei costi (non solo commissionali, ma anche informativi, cioè di risorse mentali ed emotive necessarie per un approccio più attivo).
Al tempo stesso, però, se siamo onesti intellettualmente, dobbiamo riconoscere che un approccio più dinamico agli investimenti è teoricamente e praticamente fondato e può essere correttamente utilizzato. Lo scopo di un approccio più attivo è ovviamente quello di provare ad ottenere anche un rendimento superiore a quello di un approccio passivo, ma se fosse applicato solo con questo scopo, probabilmente i maggiori costi che esso richiede (soprattutto in termini di risorse mentali ed emotive) non giustificherebbero il tentativo. Non esiste nessuna strategia o tecnica, per quanto fondata su evidenze accademiche o empiriche, che possa garantire un rendimento maggiore rispetto ad un qualsiasi altro (non solo rispetto ad un indice a capitalizzazione). I mercati finanziari sono incerti per definizione, il futuro è sempre aperto e mutevole (3).
Una gestione più attiva, però, può consentire di ritagliare, nel vastissimo spazio dell’universo investibile, quelle tipologie di rischio/incertezza che per lo specifico investitore minimizzano i rimpianti e massimizzano le gratificazioni.
Nella società di consulenza finanziaria che ha contribuito a fondare ormai più di 20 anni fa, amiamo usare la metafora della navigazione in mare per parlare degli investimenti finanziari.
Amiamo paragonare gli approcci agli investimenti più statici alla "navigazione a vela” e gli investimenti che richiedono più impegno alla “navigazione a motore”. La navigazione a motore non è contraria alla navigazione a vela. Non si può dire che una delle due sia sicuramente preferibile. L’una cosa, fra l’altro, non esclude necessariamente l’altra. Si può fare una “navigazione a propulsione mista” dedicando una parte del portafoglio finanziario alla strategia più “statica” ed una parte a quella più “dinamica”.
Come sempre, la cosa fondamentale è investire in modo più consapevole possibile, avendo aspettative ragionevoli e fondate. Inoltre è fondamentale decidere prima, possibilmente scrivendolo, cosa fare nei momenti nei quali i mercati finanziari vanno contro alla strategia scelta. Qualunque sia l’approccio agli investimenti che si scelgono, infatti, la sola certezza che abbiamo è che affronteremo momenti positivi e momenti negativi. La differenza sul risultato finale è determinata da quanto sapremo essere coerenti con le nostre strategie nei momenti di difficoltà.
Note
(1) Il messaggio principale che il precedente articolo voleva comunicare non era certo che per battere i mercati basta togliere le “mele marce” dall’indice, anzi. Togliere alcune mele marce dall’indice è anche una cosa in parte possibile ed auspicabile, ma ciò che volevo comunicare con il precedente articolo e che se per battere il mercato si intende confrontarsi annualmente con il rapporto media/varianza di un indice, allora quello è un gioco logicamente impossibile da vincere - proprio per la parte corretta della teoria dei mercati efficienti. Esiste però un modo più intelligente di “battere il mercato” ed è quello di scegliere la tipologia di incertezza dei mercati che ci fa vivere meglio il viaggio degli investimenti. Facendo quella scelta, non è garantito che il rendimento a scadenza sia necessariamente superiore a quello di un altro indice, ma l’investitore avrà comunque vinto, perché non avrà affrontato quel tipo di incertezza che invece quell’indice ha affrontato e lui avrà comunque raggiunto i suoi obiettivi di vita collegati agli investimenti, affrontando il viaggio nel modo più confortevole per lui.
(2) Da notare che a ben vedere queste “eccezioni” non smentiscono la teoria iniziale di Eugene Fama. Anzi, è stato proprio lui, insieme al collega Kenneth French a proporre il famoso modello a 3 fattori sviluppato nel 1992 che poi è diventato a 5 fattori nel 2014. Questi modelli prevedono che le aziende a bassa capitalizzazione e quelle cosiddette “value” (valutate dai loro studi secondo il parametro prezzo/book value) battono l’indice generale. La giustificazione teorica a questo fenomeno è che il mercato “paga” un rischio maggiore implicito in queste aziende.
(3) Si noti che noi siamo portati a concentrarsi sugli indici a capitalizzazione non perché abbiamo deciso che questi indici siano tecnicamente superiori, ma solo perché sono i più pratici da costruire ed abbiamo la grande maggioranza dei fondi indicizzati che usano questo tipo di indici. Ma l’incertezza riguarda non solo il confronto con l’indice, ma anche il confronto con qualsiasi altra strategia. Usare un indice a capitalizzazione significa comunque, implicitamente, scegliere una strategia e nessuno può dire se in futuro sia migliore o peggiore di un altra. E’ semplicemente quella più facile da scegliere e che ha meno costi (prima di tutto mentali ed emotivi).
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