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Investimenti finanziari. La folle mania di voler 'battere il mercato' - Parte 2
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Articolo di Alessandro Pedone
28 gennaio 2025 12:58
 
Questo articolo rappresenta la seconda parte dell’articolo pubblicato pochi giorni fa, che mostrava alcuni modi attraverso cui si può cercare di sfruttare l'inefficienza valutativa dei mercati finanziari. L'obiettivo non è “battere i mercati”, ma estrarre dai mercati il massimo rendimento possibile per lo specifico investitore.

L’articolo precedente si riferiva a tecniche applicabili alla generalità degli investitori, inclusi coloro che dispongono di patrimoni contenuti, da poche decine a poche centinaia di migliaia di euro.

In questa seconda parte, invece, ci concentriamo su portafogli finanziari più consistenti (tendenzialmente da milioni di euro in su). Analizzeremo modi per utilizzare singoli titoli azionari non con l’intento di “battere il mercato”, ma per estrarre dai mercati finanziari il massimo rendimento netto possibile per lo specifico investitore.

Nel precedente articolo abbiamo spiegato cosa intendiamo per "battere il mercato” e perché questo obiettivo non dovrebbe interessare il singolo investitore. Il fatto che i gestori non riescano - mediamente - a battere il mercato è spesso utilizzato come argomento a sostegno dell’idea che sia statisticamente impossibile selezionare titoli che, in media, performino meglio del mercato stesso, anche nell’unico orizzonte temporale sensato per investire in azioni: il lunghissimo termine (almeno 10 anni, ma idealmente per tutta la vita dell’investitore).

Questa credenza è fortemente limitante per le possibilità di quei pochi investitori, molto facoltosi, che possono permettersi di investire in un paniere di singoli titoli azionari, adottando il corretto orizzonte temporale.

Sia chiaro: non stiamo affermando che selezionare singole azioni sia alla portata di tutti. Tutt’altro. Crediamo l’esatto opposto. Come ribadiamo in tutti gli articoli dedicati ai singoli titoli azionari, l’investimento in azioni individuali è sconsigliabile alla stragrande maggioranza degli investitori, poiché richiede competenze (sia tecniche che comportamentali) che mancano al 99% degli investitori.

La tesi che voglio sostenere in questo articolo è la seguente: per quei pochissimi investitori che sono nelle condizioni di poter investire in singoli titoli, questi ultimi possono offrire vantaggi significativi rispetto agli ETF. Gli ETF, inizialmente, dovrebbero comunque costituire la maggior parte del portafoglio. Man mano che l’investitore acquisisce maggiore familiarità con i singoli titoli azionari, gli ETF potrebbero anche scomparire del tutto.
Naturalmente, il presupposto alla base di tutto il resto dell’articolo è la convinzione che i mercati finanziari non siano efficienti dal punto di vista valutativo. Questo significa che i singoli titoli azionari attraversano cicli in cui, in alcuni momenti, il prezzo è fortemente superiore ai valori fondamentali e, in altri, fortemente inferiore.

Per approfondire, rimando non solo all’articolo precedente ma anche a “La relazione tra fondamentali e prezzi di borsa”. Consiglio inoltre di leggere questi due articoli correlati: “Perché devi capire se i mercati finanziari sono “efficienti”?” e “Psicologia dei mercati finanziari: intelligenza collettiva o follia della massa?"

Nessun “pasto gratis”
So, per esperienza diretta, che investire in singoli titoli azionari può portare enormi gratificazioni, sia economiche che psicologiche. Tuttavia, come per tutte le cose nella vita, ottenere maggiori gratificazioni comporta un costo: richiede maggior impegno, maggiori costi (soprattutto informativi e psicologici) e una maggiore incertezza.

Quando si investe in singoli titoli azionari, è inevitabile commettere molti errori. Pochi sanno che la maggior parte dei titoli azionari che compongono un indice azionario ampiamente diversificato genera rendimenti negativi o comunque inferiori a quelli dei titoli di Stato. Il professor Hendrik Bessembinder, dell’Università dell’Arizona, ha condotto uno studio su oltre 26.000 azioni quotate dal 1926 al 2019.

Lo studio, intitolato Wealth Creation in the U.S. Public Stock Markets 1926 to 2019, mostra che il 57,8% delle azioni porta a una distruzione di valore. Inoltre, meno dello 0,2% delle aziende – precisamente 50 – è responsabile del 40% di tutta la ricchezza creata dal 1926 al 2019!

Acquistando l’intero indice, si accetta di portare con sé un’enorme zavorra, al fine di assicurarsi di includere quelle poche “perle” che generano la gran parte del rendimento. Scegliere un paniere di poche decine di titoli, invece, consente di puntare ad avere una percentuale di titoli perdenti inferiore alla metà e una percentuale di “super-vincenti” superiore allo 0,2%.

Queste percentuali si riferiscono al numero di azioni, non alla capitalizzazione. Negli indici a capitalizzazione, infatti, il peso di quello 0,2% di “super-vincenti” è molto più grande.

Questi dati possono essere interpretati in due modi opposti.

Se si crede che selezionare un’azienda sia sostanzialmente una questione di “fortuna”, le probabilità di selezionare lo 0,2% di vincenti sono ridicole. Personalmente, non credo che sia una questione di pura fortuna. Certo, la fortuna gioca un ruolo – come in tutte le attività della vita – ma selezionare le aziende che hanno il potenziale per generare maggiori profitti nel lungo termine è principalmente una questione di competenza.

I maggiori rendimenti, però, non si ottengono senza costi o rischi. Non esiste alcun “pasto gratis”. Il problema non è tanto identificare le aziende vincenti, quanto avere la capacità di mantenerle in portafoglio a lungo, specialmente nei momenti di crisi (e, possibilmente, incrementare le posizioni in quei momenti).

Un altro problema fondamentale è saper distinguere i momenti di difficoltà temporanea dalle fasi in cui il modello di business di un’azienda diventa obsoleto e l’azienda stessa entra in declino (o si trasforma).

Praticamente tutte le aziende che hanno moltiplicato il loro valore di 100 volte hanno attraversato, lungo un percorso medio di vent’anni, diverse fasi in cui il prezzo delle loro azioni è sceso di circa il 70% rispetto ai massimi precedenti.

Avere la capacità di mantenere (e accumulare) tali azioni durante queste fasi è una competenza cruciale, che può portare a rendimenti completamente fuori scala rispetto agli investimenti in indici azionari ampiamente diversificati.

Se si crede – come il sottoscritto – che selezionare e mantenere le aziende più profittevoli sia principalmente una questione di competenza (tecnica e psicologica), allora diventa ragionevole, se ci sono le condizioni economiche necessarie, dedicare tempo e risorse per provare a selezionare le aziende migliori e mantenerle nel lunghissimo termine.

Perché i fondi non ci riescono? 
L’obiezione più comune a questo approccio è che i gestori dei fondi – come è noto – non riescono a effettuare una selezione efficace dei titoli. Perché mai dovrebbe riuscirci un investitore individuale, che dispone di meno risorse per effettuare questo tipo di analisi?

Si tratta di un’obiezione certamente ragionevole, ma superficiale. Dal mio punto di vista, è un’obiezione posta da chi non ha veramente approfondito la materia.

A parte rarissime eccezioni, i gestori dei fondi comuni d’investimento tradizionali non hanno le condizioni necessarie per effettuare questa selezione.
Il primo limite è l’orizzonte temporale. Ai clienti viene detto che i fondi azionari devono essere visti nel lungo termine, ma se i gestori a fine anno registrano una performance molto inferiore al benchmark, rischiano di perdere il lavoro. L’incentivo del gestore, quindi, è cercare di fare leggermente meglio del benchmark nel breve periodo, evitando di correre il rischio di fare significativamente peggio.

Il secondo grande limite è rappresentato dai flussi d’investimento, che i gestori non controllano. Quando il mercato va male, i clienti ritirano i loro fondi. I gestori sanno benissimo che sarebbe opportuno incrementare gli investimenti proprio in quei momenti, ma non possono farlo perché non dispongono dei fondi necessari. Al contrario, quando le azioni sono sopravvalutate, i gestori ricevono nuovi flussi da investire e sono obbligati a farlo, poiché non possono – per regolamento – detenere liquidità oltre una certa soglia.

Il terzo limite riguarda la dimensione dei fondi. Le opportunità più interessanti del mercato si trovano spesso in aziende a media o piccola capitalizzazione, che hanno il potenziale per diventare aziende a grandissima capitalizzazione. Un fondo di grandi dimensioni, però, può acquistare solo quantità insignificanti di queste aziende, poiché altrimenti rischierebbe di influenzarne il prezzo. Tuttavia, acquistare quote così ridotte non giustifica lo sforzo della ricerca, poiché l’impatto sul rendimento complessivo sarebbe comunque trascurabile.

Tutti e tre questi limiti non si applicano a un investitore individuale con un portafoglio da qualche milione di euro. Sebbene questa cifra possa sembrare significativa in termini assoluti, è trascurabile se confrontata con i patrimoni gestiti dai fondi, che operano su ordini di grandezza molto superiori.

Il “piccolo” investitore, dunque, ha significativi vantaggi rispetto ai gestori, ma spesso non possiede le competenze tecniche e psicologiche necessarie per sfruttarli. Se fosse in grado di sviluppare tali competenze, potrebbe aspirare a rendimenti significativamente superiori alla media del mercato, pur dovendo affrontare maggiori costi informativi e una maggiore incertezza rispetto a un investimento in indici ampiamente diversificati.
Paradossalmente, abbandonare l’idea di voler “battere il mercato” – cioè accettare con serenità che, per un periodo anche lungo, i titoli selezionati possano sottoperformare rispetto alla media del mercato – diventa una delle principali condizioni necessarie per ottenere rendimenti superiori nel lungo termine.

Ottimizzazione dei flussi dell’investitore
Una volta abbandonata la folle mania di confrontarsi annualmente con un benchmark di riferimento, disporre di un paniere di poche decine di singoli titoli azionari consente di ottimizzare molto meglio i flussi in entrata e in uscita del singolo investitore. In ogni momento, ci saranno sempre titoli sopravvalutati e titoli sottovalutati.

Come abbiamo scritto molte volte, il fatto che un titolo sia sopravvalutato non significa, di per sé, che il prezzo debba necessariamente scendere e, viceversa, il fatto che un titolo sia sottovalutato non implica che il prezzo debba salire immediatamente. Tuttavia, l’informazione relativa a una distanza significativa tra valore e prezzo di un titolo può essere sfruttata – non per “battere il mercato” in modo sistematico – ma per ottimizzare il rendimento dei propri flussi di cassa.

È ragionevole supporre che, se un titolo è fortemente sopravvalutato, avrà un rendimento medio di lungo periodo inferiore rispetto alla media degli altri titoli, e viceversa.

Non entreremo, in questo articolo, nel complesso tema della definizione del valore di un’azienda (per approfondire, si rimanda all’articolo “La relazione tra fondamentali e prezzi di borsa”). Il valore non è un dato osservabile, ma sempre una stima, la cui correttezza futura dipende dai risultati che l’azienda riuscirà a conseguire.

È possibile, ad esempio, affermare oggi che un’azienda è fortemente sopravvalutata, salvo poi scoprire in futuro che è riuscita a ottenere risultati economici così straordinari da rendere il prezzo passato ragionevole in rapporto a ciò che ha realizzato. Naturalmente, può verificarsi anche il contrario.

Tuttavia, mediamente, avere la possibilità di investire i flussi in ingresso nelle aziende che appaiono sottovalutate e di prelevare risorse da quelle che sembrano sopravvalutate è una pratica che può ottimizzare notevolmente il rendimento complessivo di lungo termine.

Ottimizzazione fiscale
Un altro vantaggio importante dell’investimento in singoli titoli azionari è la possibilità di compensare le minusvalenze con le plusvalenze, cosa non possibile con i fondi comuni d’investimento (compresi gli ETF). Nel lungo termine, questo vantaggio può incrementare significativamente il rendimento netto del portafoglio.

Per portafogli di dimensioni pari a milioni di euro, l’impatto di questa ottimizzazione può raggiungere decine o addirittura centinaia di migliaia di euro di benefici annui.

Negli Stati Uniti, per i financial planner, l’ottimizzazione fiscale rappresenta una parte fondamentale del loro lavoro. Ogni anno, i titoli in perdita vengono venduti per generare minusvalenze, utili a compensare i guadagni derivanti dalla vendita dei titoli in forte plusvalenza. Successivamente, gli stessi titoli possono essere riacquistati.

In Italia, questa pratica deve essere gestita con attenzione per evitare rischi di elusione fiscale. Tuttavia, combinando in modo opportuno la selezione dei titoli con l’ottimizzazione fiscale, è possibile aumentare costantemente il prezzo medio di carico dei titoli, riducendo una parte significativa del carico fiscale complessivo.

Conclusione
In sintesi, l’investimento in singoli titoli azionari offre, a quegli investitori che possono permettersi i costi informativi e psicologici associati, una maggiore flessibilità nella gestione dei flussi finanziari e un’ottimizzazione fiscale molto impattante.

La selezione dei singoli titoli, però, è un’attività estremamente complessa, che richiede competenze avanzate, molto tempo e un’accettazione consapevole degli inevitabili errori.

D’altra parte, basta sbagliare meno del 50% delle volte e individuare due o tre aziende “super-vincenti” per ottenere, nel lungo termine, rendimenti netti significativamente superiori a quelli derivanti dall’investimento in ETF ampiamente diversificati.

Vale la pena? Non esiste una risposta valida per tutti. La scelta deve essere fatta con la massima consapevolezza, avendo ben chiari non solo i possibili vantaggi, ma soprattutto le difficoltà e i rischi che si dovranno affrontare per raggiungere tali benefici.


 
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