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 Le due grandi derive del capitalismo mondiale
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Articolo di Redazione
21 ottobre 2018 19:17
 
 Vi ricordate all’inizio degli anni 2000 il dibattito su un eventuale smantellamento di Microsoft. In regime di monopolio con Windows, sistema di navigazione dei personal computer, che viene accusato di pratiche commerciali scorrette. La giustizia americana prova a scindere l’azienda in due. Dopo una lunga battaglia giudiziaria, Microsoft riesce a non doversi sottomettere alla scissione.
La concorrenza a confronto
Oggi il dibattito ritorna in auge con l’apparizione dei giganti del digitale Apple, Amazon, Google e Facebook (GAFA). Lo scorso aprile, a Washington, alla sede del Fondo Monetario Internazionale (FMI), Christine Lagarde, la sua direttrice generale, mostra preoccupazione per la loro dimensione e per il loro potere di crescita. Il GAFA rischia di distruggere la concorrenza e l’innovazione, essenziali alla crescita della produttività e della prosperità mondiale. “La concorrenza è necessaria. Se c’è troppa concentrazione, troppo potere di mercato nelle mani di troppi pochi, questo non serve a niente a medio e lungo termine, né all’economia, né al benessere degli individui”, dichiara. Nel periodo in cui ci si sta facendo diverse domande sulla crescita delle diseguaglianze, della crescita dei movimenti populisti, di una crescita economica mondiale che non crea vantaggi per tutti, di un commercio disequilibrato, economisti e politici cercano di fare luce sulle cause di queste sconfitte e derive.
La questione della concorrenza non si applica ai solo giganti del digitale. Ma all’insieme dell’organizzazione del sistema produttivo internazionale delle imprese.
Quando Donald Trump fustiga la Cina come responsabile della distruzione dei posti di lavoro negli Stati Uniti, emerge uno dei sintomi di una disfunzione del commercio internazionale e della mondializzazione. Erigere delle barriere protezioniste attraverso un aumento dei dazi doganali per riequilibrare gli scambi, non è la buona soluzione. Questa è altrove. In una riforma e non con la distruzione di un capitalismo sofferente per due derive.
Concentrazione del mercato delle esportazioni
In un rapporto dello scorso 26 settembre, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Cnuced) sottolinea che “l’iperglobalizzazione… è sotto la regia di grandi imprese che hanno acquisito una posizione sempre più dominante sul mercato”. Nell’ambito delle imprese esportatrici, l’1% di esse è responsabile, in media, del 57% delle esportazioni da un Paese specifico secondo le statistiche del 2014. Il 5% delle imprese che sono maggiormente dedite ai mercati esteri, monopolizza l’80% delle esportazioni.
Quello che è inquietante, è che i nuovi che arrivano su un mercato specifico – in generale delle piccole PMI esportatrici – hanno un tasso di sopravvivenza molto debole. In media, il 73% delle imprese cessano le loro esportazioni nel giro di due anni. Una scomparsa che non sarebbe legata ad una concorrenza feroce sui mercati ma alla sindrome « winner takes the most » secondo la Cnuced. In breve, alla posizione dominante di alcuni mastodonti.
La legge del più forte
"L'integrazione commerciale può aver contribuito alla diminuzione della quota di manodopera in valore aggiunto creando una dinamica che vede il vincitore conquistare la parte del leone («winner takes the most») e rafforzare la concentrazione del mercato. in un certo numero di settori, con conseguente aumento della quota di profitti", dice l’OCSE nelle sue prospettive economiche. E prosegue: le regolamentazioni favorevoli alle aziende già attive, l’assenza di politiche rigorose in materia di concorrenza ed una ottimizzazione fiscale aggressiva, possono condurre ad una crescita dei benefici delle aziende quando la concentrazione del mercato aumenta. Un eccesso che denunciava già nel 1776 l’economista Adam Smith nella sua opera “Sulla ricchezza delle nazioni”. “Bisogna sempre opporsi alla restrizione della concorrenza perché essa permette ai mercanti, attraverso la crescita dei loro profitti al di sopra di ciò che sarebbe naturale, di prelevare, a loro favore, un vantaggio assurdo sul resto dei loro concittadini”, scriveva.
Finanziarizzazione crescente
Le due organizzazioni internazionali sottolineano anche questo secondo pregiudizio del capitalismo: la sua crescente finanziarizzazione e un trofismo a favore del valore per gli azionisti delle aziende. “Le imprese transnazionali hanno rinforzato la loro capacità di operare a livello mondiale con i metodi delle fusioni e delle acquisizioni che rafforzano anche il loro controllo sui potenziali concorrenti. Il peso accresciuto delle finanze nelle loro operazioni è andato di pari passo con una strategia d’impresa che tende a massimizzare il valore per gli azionisti”, rileva la Cnuced. L’esempio di Apple è rivelatore. Nel 2013, l’azienda dispone di una grande riserva di cash (145 miliardi di dollari) di cui una gran parte fuori del territorio americano. Essa preferisce levare sul mercato obbligazionario 17 miliardi di dollari per finanziare una parte dei 100 miliardi di dollari dei dividendi e di raccogliere delle azioni promesse ai suoi azionisti. Il rimpatrio di una parte di cash l’avrebbe obbligata in effetti a doversi sottomettere ad un 35% di tasse…
Traiettoria insostenibile
“La finanziarizzazione delle imprese ha spostato il potere decisionale a favore degli azionisti. La governance delle imprese sotto l’influenza della finanza è il principe del valore delle azioni”, osserva Michel Aglietta in un vasto studio sul tema “Trasformare il regime di crescita”, pubblicato all’inizio di ottobre. Risultato di questa finanziarizzazione: un indebolimento dell’accumulo netto del capitale produttivo. Per l’economista, “il capitalismo finanziarizzato ha dato vita ad un regime di crescita che evolve su una traiettoria insostenibile di fronte alla sfide del secolo”. E questo regime di crescita pone dei problemi più profondi: crescita delle diseguaglianze sociali, concentrazione del potere e della ricchezza verso i più favoriti e moltiplicazione delle rivalità geopolitiche. Il dibattito rischia di durare e i leader politici si devono dar da fare a lungo per capire quali siano i mezzi per rimediare a queste due derive.

(articolo di Richard Hiault, pubblicato sul quotidiano Les Echos del 17/10/2018)
 
 
 
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