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Patologia della complessita' finanziaria
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Articolo di Paolo Sassetti (*)
29 aprile 2005 0:00
 
Credo che ormai sia chiaro a tutti i lettori come uno dei piu' delicati temi che riguardano l’intermediazione finanziaria sia come assicurare un equo profitto agli intermediari finanziari per la loro attivita' senza compromettere, nel contempo, l’erogazione di sufficiente valore aggiunto nei servizi resi ai sottoscrittori dei prodotti finanziari.
E' un tema delicato perche' riguarda equilibri delicati tra contrapposti interessi e fenomeni di asimmetria informativa. Analisi di lungo termine sulle borse azionarie piu' mature e sviluppate del mondo segnalano che il rendimento reale (cioe' al netto dell’inflazione) delle azioni, al lordo di imposte, commissioni di negoziazione e di gestione, si aggira attorno al 6% annuo, un valore molto vulnerabile in condizioni reali. Non e' infrequente imbattersi in prodotti caricati di costi annuali del 5-6%. Salvo rare eccezioni, sottoscriverli di fatto significa assumersi il rischio dell’investimento azionario per conseguire un rendimento reale pari a zero. Analogo ragionamento puo' applicarsi al premio di lungo termine per il rischio delle azioni. Prodotti caricati con costi commissionali troppo elevati possono implicare l’assunzione da parte degli investitori di un rischio azionario ma anche il contestuale trasferimento del relativo premio agli intermediari. Il tema, dunque, e' assai delicato.

Il tema, cosi' genericamente posto, tuttavia, e' anche ambiguo o, per lo meno, incompleto. Infatti lascia aperto il problema di come si dovrebbe misurare il “valore aggiunto”, cioe' l’utilita' , incorporata nei servizi finanziari per i sottoscrittori dei servizi.
Forse confrontando i risultati di tali servizi con quanto i risparmiatori potrebbero ottenere singolarmente con il “fai da te” finanziario? Per molti anni e' stato usato questo confronto e – per giustificarlo – bisogna considerare che i primi fondi comuni furono disponibili in Italia solo nel 1984. I vantaggi che promettevano di offrire ai risparmiatori in termini di diversificazione di portafoglio ed economie amministrative (per non parlare di competenze professionali) erano tali da prefigurare un potenziale valore aggiunto positivo rispetto al “fai da te”. In una prima fase di sviluppo dell’industria del risparmio gestito la logica di quel confronto poteva avere un senso ma, col passare del tempo, con l’incremento dell’attitudine dei risparmiatori italiani a farsi gestire e con l’incremento dei prodotti disponibili, non piu'.

Oggi l’analisi del valore dei prodotti finanziari deve potersi sempre piu' assimilare all’analisi del valore adottata nell’industria manifatturiera per la re-ingegnerizzazione dei prodotti industriali. Un prodotto industriale viene scomposto nelle sue componenti e per ognuna di esse ci si interroga: possiamo fare a meno di questa componente, risparmiandone il costo? Possiamo ottenerla di migliore qualita' a costo minore? Possiamo ottenerla di qualita' migliore allo stesso costo? Se ad una sola di queste tre domande e' possibile rispondere positivamente, significa che il prodotto e' in qualche modo migliorabile per il cliente finale e puo' offrire ad esso un maggiore valore aggiunto.

L’analisi del valore applicata ai prodotti finanziari, cosi' come ho cercato di spiegarla in Judo finanziario (si veda:
clicca qui con un uso intensivo della metodologia dei casi, dovrebbe avere, almeno in teoria, la stessa logica. Ho scritto “dovrebbe” perche' la strutturazione dei prodotti finanziari e' troppo spesso pensata sulle esigenze delle reti di vendita piuttosto che sulle esigenze degli investitori.


Il ruolo delle Authority di controllo. Viva la perfida Albione!
Un principio di basilare buon senso per la ingegnerizzazione dei prodotti finanziari e' che, se un determinato obiettivo di rischio/rendimento puo' essere perseguito con un prodotto finanziario semplice, non c’e' ragione per perseguirlo in maniera piu' complessa con un prodotto piu' complicato.
Ad una crescente complessita' strutturale dei prodotti finanziari deve corrispondere un effettivo miglioramento delle loro caratteristiche di rischio/rendimento, altrimenti e' preferibile optare per i prodotti piu' semplici. Diversamente, infatti, l’aumento della complessita' del prodotto deve giudicarsi inutile e persino dannosa per i risparmiatori.
Lo stesso Regolamento Attuativo del testo Unico della Finanza fa un riferimento generale a questo principio. L’art. 26, comma f del Regolamento Consob 11522/98 Attuativo del TUF afferma esplicitamente:
“Gli intermediari autorizzati operano al fine di contenere i costi a carico degli investitori e di ottenere da ogni servizio d'investimento il miglior risultato possibile, anche in relazione al livello di rischio prescelto dall'investitore”.
In altri termini, la Consob, l’ente che ha emanato il Regolamento Attuativo, ha stabilito che, almeno sul piano del principio, i risparmiatori hanno diritto a prodotti finanziari che non siano strutturati in maniera baroccheggiante, con il relativo trascinamento di costi inutili per loro ed utili solo per gli intermediari. Ovviamente, tra le dichiarazioni di principio e la loro applicazione pratica vi sono molti oceani perigliosi e molti interessi conflittuali in mezzo.
Un caso esemplare di potenziale applicazione di quel comma sarebbe dovuto essere, a mio avviso, quello dei prodotti My Way e 4 You in quanto e' stato dimostrato matematicamente che semplici piani di accumulo sarebbero stati piu' efficienti per i risparmiatori rispetto all’investimento tramite l’accensione di mutui. Ma cosi' non e' stato, la Consob non e' voluta entrare in quel merito. Tuttavia, a questo punto una domanda sulla questione e' lecita: a quale situazione-tipo pensava effettivamente la Consob quando detto' quell’articolo di un regolamento che e' rimasto sostanzialmente lettera morta, come se tutti i prodotti disponibili sul nostro mercato finanziario contenessero effettivamente i costi a carico degli investitori? Ad una pura dichiarazione di astratti principi che viene, pero', vanificata dal principio della liberta' contrattuale tra le parti (per cui chiunque puo' farsi legalmente “spennare” purche' dichiari per iscritto di aver preso atto dei rischi dell’investimento)? Ma un regolamento finanziario non ha la funzione della Costituzione della Repubblica, ne’ e' un documento dove accumulare articoli in concreto inapplicabili. Allora, molto meglio non offrire false illusioni, cancellare gli articoli che dichiarano principi non applicati od inapplicabili (perche' implicano un giudizio di merito sui prodotti finanziari nei quali la Consob non puo' o non vuole entrare) e dire chiaramente ai risparmiatori che non e' realistico determinare il miglior risultato possibile per un servizio d’investimento, anche in relazione al rischio prescelto, come invece il Regolamento Attuativo del TUF vorrebbe far credere. Ma solo se gli articoli restano non applicati e' opportuno cancellarli, un po’ come i file temporanei di Windows, inutili ma che occupano spazio sul disco fisso.

Tuttavia, prima di trarre conclusioni affrettate sull’impossibilita' delle Authority ad intervenire almeno sui casi piu' evidenti e clamorosi, non e' sbagliato allungare lo sguardo sul comportamento tenuto da altre Authority in merito a conflitti d’interesse analoghi, ad esempio la Financial Services Authority, la Consob britannica.

In un caso clamoroso della fine degli anni ‘90, il grande scandalo dei PIP (Piani Integrativi Pensionistici individuali) britannici, la FSA impose risarcimenti miliardari (in miliardi di sterline) a quelle societa' che avevano indotto molti lavoratori ad uscire dagli efficienti piani pensionistici negoziali per sottoscrivere dei Piani Integrativi Pensionistici individuali, assai piu' costosi ed assai meno efficienti sotto il profilo previdenziale. La FSA non sanziono' solo la mancata trasparenza con cui venne incentivata questa inefficiente operazione di switch tra piani pensionistici e PIP ma commisuro' i risarcimenti pagati ai lavoratori al maggior costo dei PIP rispetto ai piani pensionistici fatti abbandonare tramite informazioni incomplete o ingannevoli. Da un certo punto di vista, la FSA applico' in maniera rigorosa cio' che la Consob ha solo enunciato per principi generali. Abbasso la differenza! Viva la perfida Albione! (per chi voglia approfondire il caso, rinvio al libro di Stuart Fowler, No Monkey Business [Niente imbrogli], Financial Times Prentice Hall, 2002).
Come dite? e' un caso che non si e' mai verificato in Italia? Ma se la stampa italiana e' piena di cronache di intermediari che fanno uscire i loro clienti dai fondi per farli confluire in polizze Unit Linked e nei PIP!

Un esempio
Tra le lezioni di Judo finanziario la piu' incisiva sul principio che “semplice e' meglio” e' forse quella dedicata ai fondi di fondi. Se, com’e' stato ripetutamente evidenziato dalla ricerca empirica, i fondi comuni incontrano gravi difficolta' ad offrire un valore aggiunto effettivo ai sottoscrittori (rispetto agli Etf), e' immaginabile che prodotti gravati da una piu' fitta stratificazione di commissioni possano incontrare difficolta' ancora maggiori. Per dimostrare questo concetto ho messo a confronto tre diversi fondi di fondi: (1) un fondo di fondi monomarca, (2) un fondo di fondi plurimarca e (3) un fondo di Etf settoriali.

Sui primi due prodotti non c’e' storia, la distruzione di valore rispetto a semplici strategia di indicizzazione di portafoglio e' apparsa evidente anche senza ricorrere ad analisi sofisticate.
Ma anche il terzo prodotto, sicuramente il migliore fra i tre esaminati, presenta il difetto di un’inutile complessita' rispetto all’obiettivo che – sia pur non dichiarato esplicitamente – appare essere quello dell’indicizzazione all’indice Dow Jones Eurostoxx.
La figura 1 (vedi allegato) conferma come il fondo (in verde), dal suo lancio, si e' sostanzialmente attenuto alla politica di assecondare il suo benchmark (in rosso), costituito al 90% dall’indice Dow Jones Eurostoxx.

Il fondo investe in poco meno di venti Etf settoriali che, almeno ufficialmente, sono soggetti a periodici ribilanciamenti. Presenta, pertanto, una complessita' strutturale non insignificante. Questa complessita' strutturale e' giustificata dagli obiettivi perseguiti e dai risultati conseguiti? Offre vantaggi di qualche natura ai suoi sottoscrittori rispetto alla sottoscrizione di un semplice Etf europeo come, ad esempio, l’Etf SPDR Europe 350 Fund che presenta una commissione di gestione dello 0,35% contro quella dello 0,96% del fondo in questione? O rispetto all’Etf iShares Dow Jones Euro Stoxx 50 che ha un Total Expense Ratio di solo 0,25% e, diversamente dal precedente, si concentra nella sola area dell’Euro?
Evidentemente, no, non offre vantaggi ma solo un aggravio di costi. In qualunque prodotto finanziario, per giustificarsi una complessita' strutturale superiore a quella di un Etf, il prodotto deve perseguire (efficacemente o, almeno, provarci) l’obiettivo di una gestione attiva di portafoglio. I fondi di fondi (prodotti piu' complessi – e piu' costosi – dei singoli fondi) non hanno alcun senso logico ed economico per i risparmiatori se risultano, nella sostanza, indicizzati. I due Etf prima menzionati, invece, per citare ancora una volta il Regolamento Attuativo del TUF, offrono all’investitore il miglior risultato possibile, se il suo profilo di rischio e' quello del benchmark. Sia pure per la distorsione dei dividendi (incassati dagli Etf ma non calcolati nella maggior parte degli indici azionari) noi vedremmo questi Etf battere i relativi benchmark anziche' esserne battuti, in altri termini vedremmo la linea verde del grafico precedente sovrastare quella rossa e non viceversa.
E' si' vero che la commissione di gestione di questo fondo di Etf e' relativamente bassa, se confrontata con quella di altri fondi presenti sul mercato, e che questo prodotto, a sua volta, investe in prodotti decisamente poco costosi ma di questo contenitore sovra-strutturale non si sente veramente alcun bisogno se ci si mette dal punto di vista dell’investitore razionale. Ben che vada, la somma complessiva delle commissioni di gestione che gravano sul prodotto raggiunge circa l’1,3% (in quanto alla commissione di gestione del fondo di Etf devono aggiungersi le commissioni di gestione degli Etf in portafoglio), che e' spropositatamente elevata per una gestione che, nella sostanza, si e' rivelata “tentativamente” indicizzata. Tentativamente, ma senza riuscirci.

Parafrasando il titolo di una celebre commedia di Shakespeare, si e' fatto “molto lavoro per nulla”, ma solo dal punto di vista dell’efficienza del prodotto. Ovviamente il contenitore sovra-strutturale, anche se inefficiente purche' apparentemente sofisticato, giustifica agli occhi di un risparmiatore inesperto o disattento una commissione di gestione piu' elevata di quella strettamente necessaria per un’operativita' sostanzialmente equivalente (e, anzi, migliore) di un singolo Etf e, pertanto, la sovrastruttura imposta al prodotto riveste una sua funzione economica per chi vende il prodotto.

Questa e', purtroppo, una delle piu' gravi ed irrisolte contraddizioni del nostro sistema d’intermediazione finanziaria. Il sistema presenta costi non indifferenti, specie laddove opera con reti di vendita specializzate, e non puo' permettersi di collocare prodotti semplici. Sforna in continuazione prodotti complessi dove, nel migliore dei casi, la complessita' serve a giustificare (apparentemente) livelli commissionali piu' elevati e dove, nel peggiore dei casi (le obbligazioni strutturate), serve a rendere materialmente indecifrabile il pricing dei prodotti. Solo eccezionalmente la maggiore complessita' dei prodotti finanziari e' finalizzata alla gestione attiva e ad un miglior rapporto rischio/rendimento rispetto ai prodotti a gestione passiva. L’UCAS finanziario, l’Ufficio finanziario per la Complicazione degli Affari Semplici, e' uno degli servizi piu' strategici nel marketing degli intermediari finanziari.

Allora, ripeto qui un paio di concetti, che dovrebbero essere scontati ma, evidentemente, non lo sono, sui fondi di fondi azionari. Solo due tipologie di fondi di fondi azionari hanno senso logico ed economico per i risparmiatori: (1) quelli (monomarca o plurimarca) che avvicendano in maniera dinamica i fondi in portafoglio secondo logiche sistematiche o discrezionali, (2) quelli (plurimarca) che vi tengono staticamente le posizioni sotto l’ipotesi che siano stati i scelti tra i fondi migliori a gestione attiva disponibili sul mercato. Usare un fondo di fondi per perseguire una strategia di indicizzazione o di semi-indicizzazione e' un puro non-senso. e' come voler usare uno schiacciasassi per rompere noci e nocciole quando uno schiaccianoci e' piu' che sufficiente allo scopo: e' utile solo ai produttori di schiacciasassi.

Ma, se e' vero che fondi di fondi in particolare mai dovrebbero risultare prodotti indicizzati (nella sostanza, di la' delle dichiarazioni di diverse strategie attive perseguite) e' altrettanto vero che, con l’aumento degli Etf geografici e settoriali presenti sul mercato, anche i fondi comuni dovrebbero proporsi agli investitori solo con strategie attive d’investimento. Perche' pagare di piu' per ottenere lo stesso risultato? Per la “consulenza” offerta dalla forza di vendita dei fondi? e' bene che i risparmiatori si abituino a pagare la consulenza separatamente dai prodotti che sottoscrivono.


(*) Paolo Sassetti e' un analista finanziario indipendente.
Ha realizzato un corso interattivo di "autodifesa finanziario" denominato Judo finanziario che si puo' trovare su sul sito clicca qui oppure presso www.Manuali.net oppure prezzo le seguenti librerie: la libreria de "Il Sole 24 Ore" – Milano, la libreria Hoepli - Milano, libreria Migliorino - Roma e la libreria Bettini di Cesena.

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