Nella
prima parte di questo articolo abbiamo visto un caso clamoroso di errata valutazione di un titolo finanziario. Comunque la si voglia guardare, il fatto che nello spazio di tre anni il prezzo di un’azione di un’azienda passi dal realizzare una performance del 1.000% al crollo del 60% è un clamoroso errore.
Non parliamo di una piccola azienda che interessa pochissime persone, parliamo di un’azienda del valore di
centinaia di miliardi di dollari. Qualcosa che coinvolge milioni di investitori.
Mentre viviamo gli eventi, è normale che le opinioni si dividano fra chi ritiene che l’errore di valutazione fosse stato fatto nel 2020/2021 (sopravvalutandola) e chi ritiene che l’errore di valutazione si stia commettendo adesso (sottovalutandola).
Come proverò ad illustrare di seguito, sono propenso a ritenere che l’errore di valutazione fosse stato fatto sia prima che dopo. Questo perché - contrariamente all’opinione comune ed anche a quello che in genere si insegna nella maggioranza delle università che diffondono il pensiero economico prevalente - i mercati finanziari non sono progettati per valutare correttamente il valore di lungo termine degli strumenti finanziari che vengono negoziati attraverso di essi.
Comprendere questo aspetto è centrale per rispondere in modo non superficiale alla domanda:
“perché tante persone intelligenti perdono soldi in borsa?”
La differenza fra prezzo, valore e valutazione convenzionale
Molti giornalisti economici e commentatori dei mercati finanziari usano l’espressione “mercati finanziari” come se fossero soggetti dotati di una propria individualità.
“I mercati finanziari hanno reagito bene/male alla notizia che…” è una tipica frase che viene spesso utilizzata. Ma cosa sono, realmente, questi mercati finanziari? Al di là degli aspetti tecnici, attraverso quale processo si determinano i prezzi degli strumenti finanziari? Ma - soprattutto - quali informazioni possiamo, ragionevolmente, dedurre da questi prezzi?
L’incapacità di rispondere correttamente a queste domande è la radice di tutti gli errori nelle scelte finanziarie che fanno gli investitori non professionisti.
I mercati finanziari si differenziano radicalmente dai mercati dell’economia reale perché tutti i beni che vengono scambiati, per loro natura intrinseca, hanno un valore incerto, indeterminabile.
All’interno del celebre romanzo di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, è contenuta una frase che è diventata uno dei suoi famosi aforismi:
“Al giorno d’oggi la gente conosce il prezzo di tutto e il valore di niente”.
Purtroppo i mercati finanziari sono progettati (a causa del totem della liquidità) per generare nella mente degli operatori
una falsa equivalenza fra prezzo e valore.
Quando ci rechiamo ad un mercato fisico conosciamo bene il prezzo che ci chiedono e possiamo farci una stima personale del valore che pensiamo di ricavare da ciò che stiamo comprando. Il prezzo è ciò che pago, cioè la quantità di moneta, il valore è ciò che ottengo, ovvero l’utilità che potrò ricavare dal possedere quel bene.
Quando acquisto un titolo negoziato sui mercati finanziari, conosco il prezzo, ma qual è l’utilità che ricavo dal possedere quel titolo?
L’utilità di possedere un titolo finanziario dovrebbe consistere nella promessa di ottenere in
futuro un certo flusso nominale di denaro, in genere indeterminato, che mi consentirà di acquistare in futuro una certa quantità, mai determinabile con precisione, di altri strumenti finanziari oppure beni e servizi reali. Questo è vero, potenzialmente, ma è troppo teorico.
Sarebbe vero se gli operatori dei mercati finanziari comprassero i titoli con l’idea di tenerli ed usufruire di questi flussi di denaro in futuro.
La realtà dei fatti, purtroppo, è ben diversa.
Nei mercati finanziari esiste un totem indiscutibile, anche a livello culturale, che è quello della “liquidità”. Si ritiene che la funzione cardine dei mercati finanziari sia quella di rendere immediatamente convertibile in denaro un titolo finanziario, il quale per sua natura è difficilmente convertibile in moneta.
La liquidità è certamente una cosa utile, ma genera anche un problema di percezione enorme.
Il fatto che in ogni momento sia possibile acquistare o vendere lo stesso titolo sposta l’attenzione del possessore dalla percezione di utilità legata ai flussi futuri che il titolo potrebbe generare, se detenuto per il naturale periodo di tempo, alla percezione del valore legato alla quantità di denaro che potrebbe ricavare vendendo il titolo adesso o in un futuro immediato.
Questo spostamento di percezione modifica radicalmente il processo di determinazione del prezzo.
Sei io acquisto il titolo finanziario non con l’idea di usufruire dei flussi monetari futuri che il titolo per sua natura dovrebbe generare nei tempi necessari, ma con l’idea di rivenderlo sul mercato non appena riterrò che il prezzo sarà conveniente, a me non interessa tanto quali saranno realmente questi flussi monetari futuri.
Ciò che mi interessa, quello che io devo stimare, il “valore percepito” che sto acquistando, quello che Keynes chiamava “valutazione convenzionale”, non sono direttamente i flussi monetari futuri.
La sola cosa che mi interesserà sarà il prezzo a cui potrò rivenderlo in futuro.
Ma se nel mercato, la grande maggioranza delle persone fa esattamente la stessa cosa, ovvero non compra i titoli perché interessato ai flussi monetari futuri, ma interessato al fatto che in futuro potrà rivenderlo ad un prezzo maggiore, questo prezzo futuro che interessa a tutti, da cosa è determinato? Non certo da una corretta stima dei flussi monetari futuri, perché quella - di fatto - interessa a ben pochi!
Questa è la ragione fondamentale per la quale il titolo Tesla può moltiplicare per dieci volte il suo valore nello spazio di un anno.
Chi comprava il titolo mentre saliva non si poneva il problema dei flussi futuri che poteva attendersi da Tesla grazie allo sviluppo del business delle auto elettriche o qualunque cosa facesse. Quello che gli interessava era il fatto che il titolo continuasse a salire così da rivenderlo, guadagnandoci. Allo stesso tempo, chi vende Tesla oggi circa alla metà del prezzo rispetto ai massimi, non si pone tanto il problema dei flussi che potrebbe ricavare in futuro. Si preoccupa solo del fatto che il prezzo possa continuare a scendere e magari pensa che in futuro potrà ricomprare lo stesso titolo, ma ad un prezzo inferiore.
A causa del totem della liquidità, quindi, il prezzo futuro atteso di un titolo tende a diventare il “valore” del titolo. Non il suo “reale valore”, nel senso di quello che il titolo potrebbe generare se fosse detenuto per il corretto arco temporale, ma l’utilità che si attende di ricavare chi acquista il titolo con una finalità speculativa, cioè di rivenderlo non appena il prezzo sarà ritenuto conveniente. Questo era ciò che Keynes chiamava “valutazione convenzionale”.
Lo strano concorso di bellezza
Il reale funzionamento dei mercati finanziari è mirabilmente espresso nel capitolo 12 del capolavoro del grande filosofo logico e economista John Maynard Keynes,
“Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (d’ora in poi TG). Purtroppo Keynes è incredibilmente misconosciuto. La sua teoria economica ha avuto una fase di enorme riconoscimento mondiale a partire dagli anni ‘30, dopo la pubblicazione della sua opera magna. In particolare, negli anni '40 e '50 il pensiero di Keynes ha avuto un impatto significativo sulla politica economica di molti paesi occidentali, come gli Stati Uniti, il Regno Unito e molti paesi europei fra i quali l’Italia. Durante quei decenni si conosceva solo una piccola parte del pensiero di un intellettuale che è stato molto più di un economista. E’ stato essenzialmente un filosofo che ha anche rivoluzionato il pensiero economico di allora introducendo la macroeconomia, ma la portata delle sue riflessioni intellettuali sono ben più ampie di questo. Per Keynes l’economia era - come è - una parte della filosofia morale. Paradossalmente, durante i decenni che hanno visto il declino della predominanza culturale in economia delle teorie keynesiane (che non di rado hanno travisato il pensiero originario, facendo passare per keynesiane cose che Keynes non solo non aveva mai scritto, ma che erano in netto contrasto con il suo pensiero) è stato fatto un enorme lavoro di riscoperta della vasta produzione intellettuale al di fuori dei campi strettamente economici. Uno dei contributi più importanti a quest’opera è legato al lavoro della professoressa
Anna Maria Carabelli che nel 1988 pubblicò un libro
“On Keynes's Method” che è stato una pietra miliare nel lavoro di analisi del pensiero Keynesiano. Molti oggi criticano Keynes (spesso non sapendo di criticare argomenti che Keynes non ha mai sostenuto, spacciati come keynesiani).
La professoressa Anna Maria Carabelli ha scritto una quantità enorme di saggi su Keynes, molti dei quali si concentrano sui concetti di probabilità ed incertezza in Keynes, come il suo ultimo libro del quale si può ascoltare una interessante presentazione in
questo video.
Il merito di questo articolo, per ciò che potrebbe essere considerato tale dai lettori, è riconducibile a lei perché mi ha spinto a rileggere proprio il dodicesimo capitolo del capolavoro di Keynes ed è lo stesso invito che estendo a tutti i lettori interessati a capire il reale funzionamento dei mercati finanziari.
Ricordo che Keynes non era semplicemente un teorico,ma una persona che conosceva bene ciò di cui parlava perchè sui mercati finanziari ci operava personalmente ed anche con grande profitto (a differenza di altri economisti famosi che hanno perso fortune).
Nel capitolo 12 della TG, Keynes spiega in dettaglio i motivi per i quali il prezzo degli strumenti finanziari non possono riflettere una valutazione sensata delle attese di lungo termine.
In primo luogo la maggior parte delle quote dei titoli (ci riferiamo prevalentemente ai mercati azionari) è detenuta da persone che sanno pochissimo delle reali condizioni presenti e future dell’azienda che le ha emesse.
Secondariamente, per usare direttamente le parole di Keynes che scriveva in modo mirabile “le fluttuazioni da un giorno all’altro nei profitti degli investimenti esistenti, le quali hanno evidentemente carattere effimero e non significativo, tendono ad esercitare sul mercato un’influenza del tutto eccessiva e perfino assurda.”
In terzo luogo:
“Una valutazione convenzionale, che è il risultato della psicologia di massa di un gran numero di individui ignoranti, è soggetta a variazioni violente in séguito ad un’improvvisa fluttuazione dell’opinione, dovuta a fattori che in realtà non esercitano una grande influenza sul rendimento prospettico; ciò perché le manca la stabilità offerta da una base di convinzioni fortemente radicate. Specialmente in tempi anormali, quando l’ipotesi di una continuazione indefinita dello stato di cose esistente è meno plausibile del solito, anche se non vi siano motivi espliciti per prevedere un mutamento ben definito, il mercato andrà soggetto ad ondate di ottimismo e di pessimismo, irragionevoli e pur tuttavia in un certo senso legittime, qualora non esista alcuna base solida per un calcolo ragionevole”
Ma il quarto argomento portato da Keynes è il più importante da comprendere, specialmente per l’investitore non professionista e riguarda proprio ciò di cui abbiamo scritto nel paragrafo precedente.
Si potrebbe pensare, infatti, sostiene Keynes, che la concorrenza tra esperti operatori professionali corregga gli sbandamenti degli investitori ignoranti.
E’ proprio questo il punto, purtroppo: non è affatto così che funziona. Avviene il contrario.
Tornando ad usare le parole di Keynes: “la maggioranza di queste persone si occupa soprattutto non già di compiere migliori previsioni a lungo termine sul rendimento probabile di un investimento per tutta la durata della sua vita, bensì di prevedere variazioni della base convenzionale di valutazione con un breve anticipo rispetto al grosso pubblico. A loro non interessa ciò che un investimento vale realmente per i cosiddetti «cassettisti», ossia per coloro che lo acquistano per conservarlo; bensì il livello cui il mercato lo valuterà, sotto l’influenza della psicologia di massa, fra tre mesi o fra un anno. Né si può dire che questo comportamento sia il prodotto di mentalità mal orientata; è un risultato inevitabile di un mercato degli investimenti organizzato secondo le linee su esposte. Sarebbe sciocco, infatti, pagare 25 per un investimento il cui reddito prospettico sia ritenuto tale da giustificare un valore di 30, se nello stesso tempo si ritiene che il mercato lo valuterà 20 fra tre mesi. [...]
L’investimento professionale può essere paragonato a quei concorsi dei giornali, nei quali i concorrenti devono scegliere i sei volti più graziosi fra un centinaio di fotografie, e nei quali vince il premio il concorrente che si è più avvicinato, con la sua scelta, alla media fra tutte le risposte; cosicché ciascun concorrente deve scegliere, non quei volti che egli ritenga più graziosi, ma quelli che ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti, i quali a loro volta affrontano tutti quanti il problema dallo stesso punto di vista. Non si tratta di scegliere quelli che, giudicati obiettivamente, sono realmente i più graziosi, e nemmeno quelli che una genuina opinione media ritenga i più graziosi. Abbiamo raggiunto il terzo grado, nel quale la nostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l’opinione media immagina che sia fatta l’opinione media medesima. E credo che vi siano alcuni i quali praticano il quarto, il quinto grado e oltre.”
Quindi, perché tante persone intelligenti perdono soldi in borsa?
Alla luce di queste perle di saggezza di Keynes, che sono perfettamente attuali perché i meccanismi di base dei mercati finanziari sono perfettamente identici a quelli di 90 anni fa, la ragione fondamentale per la quale le persone intelligenti perdono soldi in borsa è perché
non hanno compreso il reale funzionamento dei mercati finanziari.
Naturalmente ci sono poi tanti aspetti psicologici ed alcune conoscenze di ordine più tecnico/pratico relativi agli strumenti, i costi, la tassazione e altre lacune che si possono facilmente colmare. Ma la questione fondamentale è che anche le persone molto intelligenti non hanno compreso che il prezzo degli strumenti finanziari ha una bassissima relazione con il reale valore dei flussi monetari di lungo termine che si possono ragionevolmente stimare. Non è quello il “gioco al quale giocano” la maggior parte degli operatori, professionali e non, che operano in borsa.
Il modo migliore per non perdere i soldi in borsa è quello di non giocare al gioco a cui tutti giocano. Essere fra i pochissimi che guardano al valore reale, non alla “valutazione convenzionale”, per dirla con Keynes. Essere realmente investitori, non “speculatori”.
Questo non basta, naturalmente. Rimangono gli aspetti psicologici. Rimangono una serie di conoscenze e competenze che è necessario avere per realizzare un piano finanziario. Ma tutto questo deve fondarsi su una comprensione del reale funzionamento dei mercati finanziari al fine di utilizzarli per quello che realmente desideriamo fare: investire o speculare.
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