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Ordine di vendita di azioni proprie della Banca non eseguito. Commento a Decisioni ACF
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Banche in crisi di Marco Solferini *
3 luglio 2017 10:07
 
In via del tutto preliminare una disamina dei fatti. La principale doglianza del ricorrente all'Arbitro per le Controversie Finanziarie (ACF) nelle Decisioni n. 1; 3; 5, annida nel fatto che, essendo diventato azionista della Banca di riferimento avendo da questa acquistato un numero significativo di azioni le stesse non sono poi state vendute a richiesta. Pur avendo cioè presentato un ordine di vendita l'Intermediario ha ignorato lo stesso, non avendolo preso tempestivamente in carico. Inoltre, cronologicamente lo avrebbe posticipato rispetto ad altri ordini (evidentemente preferiti).

Il Cliente ha quindi presentato reclamo la cui replica tuttavia ha giudicato insoddisfacente.

La questione riveste importanza per via di tre elementi cruciali ben sintetizzati dal Collegio e che rileva di trattare nel modo più argomentato possibile onde consentirne la miglior comprensione.

Indice:
1) Il prestito baciato
2) Il mancato riacquisto delle azioni da parte della Banca. Gli obblighi di esecuzione dell'ordine
3) La dimostrazione del deficit di organizzazione dell'Intermediario
4) Conclusioni


Il prestito baciato.


Il prestito baciato consiste nella sottoscrizione di azioni della Banca allo scopo di diventarne Socio e conseguentemente beneficiare di condizioni migliori.

Siffatta prassi viene quindi pesantemente sanzionata, come già nella Giurisprudenza, anche dall'Arbitro.

La condivisibile ricostruzione parte dall'assunto che non si possano creare schermi protettivi indebiti a condotte gravemente scorrette giocando sulla falsariga della differenza tra Cliente e Socio.

In particolare le cooperative bancarie sostengono l'assunto, decisamente uscito sconfitto dalle controversie, tale per cui il Socio che non è Cliente, beneficia cioè di un diverso trattamento. Pertanto se il Cliente è tale quando si presenta presso la Banca successivamente lo stesso addiviene allo stadio di Socio qualora ne sottoscriva il capitale in azioni.

Tuttavia tale ricostruzione, strumentale e faziosa, tralascia il particolare fondamentale che il Cliente è indotto e persuaso proprio dalla Banca a diventare Socio per beneficiare di un trattamento favorevole.

L'indebito patto nasce pertanto dalla storpiatura, in seno alla buona fede e alla diligenza che la Banca dovrebbe tenere, quando invece è ella stessa che promette al Cliente un vantaggio di cui altrimenti non potrebbe beneficiare se ne fosse Socio.

In buona sostanza il Cliente non desidera diventare Socio perchè crede nell'Istituto di credito cooperativo o nella sua struttura, nel piano industriale o quantomeno nel modello di core business.

All'opposto il Cliente si rivolge alla Banca, portatore di una necessità (la richiesta di un prestito per esempio) ed è la Banca stessa che cerca di avvantaggiarsi laddove prospettata ipotesi basate sui costi / benefici.

La Banca, quindi non solo procede al piazzamento presso il pubblico di proprie azioni senza seguire il canale consueto e regolamentato ma inoltre rappresenta con comportamenti decettivamente orientati a ingenerare una falsa rappresentazione della realtà finanziaria un beneficio economico riservato al Socio. Ingigantendone o magnificandone i contenuti.

Tali vantaggi si sostanzierebbero anzitutto nella titolarità di azioni che vengono indicate come solide e conseguentemente sarebbero un valido investimento, peraltro facilmente monetizzabile. Non solo ma in aggiunta, creando quindi quel legame atto a persuadere definitivamente il Cliente, per il tramite di queste azioni (una volta acquistate), il Socio beneficerebbe di condizioni più vantaggiose per la stipula del medesimo contratto (es. mutuo).

In siffatta rappresentazione la volontà del Cliente è chiaramente coartata verso una scelta tutt'altro che sana e responsabile bensì unicamente basata sul vantaggio economico.

Conseguentemente, subentrano un triplice profilo di responsabilità ascrivibile all'Intermediario:

1) L'operazione potrebbe non essere adeguata al profilo di rischio del Cliente (anzitutto).
2) L'Intermediario agisce in conflitto di interessi perchè sta proponendo azioni proprie.
3) L'Intermediario ometterebbe gli obblighi di informazione e trasparenza laddove non assolverebbe agli obblighi informativi per i prodotti illiquidi prescritti da Consob nella comunicazione 9019104/2009.

Si noti che quando la volontà del Cliente non è orientata in modo sano e responsabile si creano proprio delle devianze rispetto a quanto stabilito dalle norme specifiche (TUF e Reg. Consob) come pure le previsioni dello stesso Codice Civile (nel caso di specie l'art. 1439, cioè il dolo quale causa di annullamento del contratto), in quanto l'Intermediario sapeva tutto e cioè era a conoscenza di ogni elemento tale per cui il Cliente non avrebbe dovuto / voluto sottoscrivere queste azioni.


Il mancato riacquisto delle azioni da parte della Banca. Gli obblighi di esecuzione dell'ordine.

Merita di soffermarsi sul mancato riacquisto di azioni da parte della Banca. Lamentano infatti i ricorrenti che malgrado abbiano impartito l'ordine di vendita l'Intermediario non solo lo ha ignorato non avendolo preso in carico ma ha anche cronologicamente preferito altri ordini pur se impartiti successivamente.

Si noti che la Banca ben potrebbe, se lo volesse, ovviare al presupposto inerente al rischio di una mancata monetizzazione delle proprie azioni (vendita da parte del Cliente). Lo potrebbe fare fin dall'inizio del rapporto.

Infatti, ella Banca, potrebbe inserire una clausola di switch nel contratto di vendita di azioni al Cliente, che consenta a quest'ultimo (ormai Socio) di scambiare le proprie azioni con un diverso prodotto finanziario (es. un total return). Così facendo il problema del riacquisto di azioni verrebbe bypassato e il Cliente / Socio potrebbe optare per il “cambio” allo scopo poi di riscattare secondo le modalità del prodotto finanziario l'importo in questione o utilizzarlo in garanzia.

Un ipotesi del genere peraltro, significherebbe che la Banca in effetti crede fortemente nel proprio business model e come tale e certa di potersi guadagnare sul campo la fiducia del Cliente pur garantendo a quest'ultimo, necessità alla mano, la possibilità di “uscire” dall'investimento.

Invece, diversamente procedendo la Banca chiude letteralmente all'angolo il Cliente ingabbiandolo prima di tutto con un contratto di mutuo a condizioni nemmeno così favorevoli da giustificare l'esborso nell'acquisto di azioni ma in aggiunta con quest'ultime in portafoglio che di fronte alla perdita di valore non vengono riacquistate. Quindi, tecnicamente, non possono essere vendute.

Di fronte a tutto questo la difesa della Banca pare essere prevalentemente: il socio non ha diritto a vedersi riacquistare le azioni quindi anche se avessimo dato seguito all'ordine di vendita lo stesso non sarebbe stato eseguito.

La qual cosa apre alla seconda serie di censure mosse contro la Banca e cioè che l'ordine impartito non sia stato nemmeno preso in considerazione. Pur potendoci essere poche chance di realizzare la vendita la stessa dovrebbe quantomeno essere tentata e come tale l'ordine dovrebbe ugualmente essere preso in carico.

Siffatto comportamento inevitabilmente si scontra con l'obbligo di provvedervi offrendo al Cliente una idonea struttura organizzata che si avvalga di altrettanto idonea (da leggersi come efficace), operatività nella vendita.

Come peraltro rileva correttamente il Collegio ACF facendo espressamente riferimento al combinato degli artt. 1 e 21 del TUF.

Da tale combinato, tenuto conto della Giurisprudenza già formatasi sul punto in diritto deriva un inequivocabile obbligo a carico della Banca. Non solo. Il Collegio si sofferma sulla correlazione tra corretta organizzazione dell'attività e corretta esecuzione del contratto. Richiamando pertanto lo stretto collegamento di inerenza teleologica e strutturale tra atto e attività che comporta indiscutibilmente sul primo di regole pur nate obiettivamente per disciplinare la seconda.

Questa sorta di assorbimento è una soluzione molto condivisibile che permette di evitare che da una separazione rilevante per i teorici degli studi economici possano discendere delle conseguenze pratiche per la scienza del diritto. Arrivando cioè a generale un artefatto che nella separazione finirebbe solo per avvantaggiare il contraente forte in grado di sfruttarla a proprio vantaggio.

Del resto le norme già richiamate, come noto, richiedono specificamente una struttura idonea e sufficientemente organizzata in grado di eseguire gli ordini del Cliente, non di sindacarli o valutarne l'opportunità.

Cioè a prescindere dal fatto (che pur ne aumenta la gravità) l'Intermediario ha inoltre violato il criterio della cronologia negli ordini ricevuti avendone preferito di successivi con ciò realizzando degli scavalcamenti che hanno altresì realizzato trattamenti discriminatori.

In buona sostanza il Cliente / Socio viene a trovarsi davanti ad una vera e propria tempesta perfetta dove il suo margine d'azione è ridotto a zero. Può solo intraprendere iniziative destinate al fallimento. A fronte delle quali egli presenta, come intuibile, la strada del reclamo che però non viene accolto.

Il Collegio ACF, nelle Decisioni n. 1; 3; 5, condanna la Banca a titolo di risarcimento a rifondere al Cliente una somma calcolata sulla percentuale base del valore dell'investimento al netto del valore attuale delle azioni detenute dal ricorrente tenuto conto di quando il Cliente avrebbe avuto intenzione di liquidare le azioni stesse.


La dimostrazione del deficit di organizzazione dell'Intermediario.


Rammentando che l'onere probatorio nei giudizi risarcitori promossi avanti all'ACF dal Cliente grava sull'Intermediario ai sensi dell'art. 23 TUF e 15 Reg. disciplinante l'ACF, grava sull'intermediario dal momento in cui il ricorrente evidenzia i fatti e solleva questione circa il lamentato deficit organizzativo quale deriva dalla disamina delle norme sopra riportate spetta quindi alla Banca dimostrare che lo stesso non si sarebbe verificato e cioè che Ella si era dotata di una struttura in linea ed idonea secondo le norme e l'interpretazione maggioritaria che ne viene data.

Orbene l'Intermediario non ha dimostrato:

1) Di avere adottato assetti organizzativi adeguati a permettere una esecuzione diligente e corretta del servizio di investimenti;
2) Sufficienti e adeguati elementi di prova atti a dimostrare e ricostruire il corretto ordine cronologico delle operazioni per confutare il trattamento discriminatorio compiuto con gli “scavalcamenti”.

A corollario di tutto ciò la posizione dell'Intermediario risulta ulteriormente inficiata da altri due fattori: le dichiarazioni dei vertici aziendali in occasione dell'assemblea dell'Intermediario e i procedimenti ispettivi condotti dalla Consob.

Trattasi, come correttamente sottolinea il Collegio di elementi indiziari che tuttavia vanno ad aggiungersi alle difficoltà dell'Intermediario di esporre una valida e quantomeno solida difesa.


Conclusioni

Una volta accertata la condotta dell'Intermediario e dal momento in cui lo stesso non è stato in grado di dimostrare di aver ottemperato nel rispetto degli obblighi che gli competevano, all'ordine di vendita impartito dal Cliente il Collegio valuta il risarcimento del danno partendo dal corretto assunto che il Cliente stesso non ha avuto nemmeno la chance di vendere le proprie azioni.

Siamo pertanto in presenza di una vera sequenza di atti i quali hanno portato alla perdita significativa non solo di quanto investito dal Cliente ma anche di aspettative e di opportunità. La disfatta è stata totale e organizzata in maniera da aver ingabbiato il Cliente lui dando margine d'azione praticamente ridotto a zero.

Dalle more del ricorso poi emerge non solo ed unicamente la propria scarsa organizzazione interna dell'intermediario ma anche l'inidoneità della medesima accompagnata forse dall'assenza di volontà in tal senso, a voler procedere quantomeno a limitare una parte del danno che il Cliente stava subendo.

Ne discende che il livello di colpevolezza pare ineccepibile.

Razionalizzando la materia ci troviamo in presenza di una violazione della buona fede e dei canoni più ermeneutici della diligenza con la quale l'Intermediario avrebbe dovuto coltivare il rapporto fiduciario tutelando gli interessi del Cliente.

All'opposto, viene in considerazione il fatto che questo sia stato trattato più come un affare dal quale trarre un profitto piuttosto che nell'ottica di offrire un servizio vantaggioso ad entrambi.

Un problema ormai molto noto nell'ambito bancario che ha pesantemente leso i rapporti con i consumatori i quali non a caso provano anzitutto una generale sfiducia nel proprio Intermediario. Il tutto spesso con piena ragione, ben inteso.

Del resto ogni condizione in cui il Cliente venga posto nelle condizioni di subire le iniquità del rapporto e come tale una sorta di “spremitura” delle proprie risorse è oggi duramente sanzionato e sorprende che la prassi ci porti a conoscenza di questi comportamenti che sono obiettivamente simili, a volte persino identici, in una casistica che non è riferibile a pochi soggetti individuati rassomigliando piuttosto a un vero e proprio indirizzo di settore.

* Avv. Marco Solferini
(Bologna – Roma)
Peo: [email protected]
Pec: [email protected]
 
 
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