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L'Italia appoggia la tassa sulle transazioni finanziarie
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Editoriale di Alessandro Pedone
14 dicembre 2011 20:28
 
Questo pomeriggio il premier Monti ha detto in Senato che l'Italia è pronta a rivedere la posizione del precedente governo in tema di tassa sulle transazioni finanziarie, quella che giornalisticamente prende il nome di Tobin-Tax ma che sarebbe più corretto chiamare tassa sulle transazioni finanziarie (la proposta del premio nobel James Tobin riguardava solo le transazioni valutarie).
La proposta di Tobin-Tax risale agli anni '70, prima ancora Tobin una tassa sulle transazioni mondiali era stata proposta da Keynes. Per molti anni non ha avuto cittadinanza nel dibattito politico. Talvolta veniva perfino utilizzata come sinonimo di proposta estremista e palesemente irrealizzabile. L'obiezione più comune che si faceva (e che in parte si fa anche oggi) è che la proposta è inapplicabile poiché dovrebbe essere applicata contemporaneamente in tutto il mondo, altrimenti le transazioni finanziarie si sposterebbero nei paesi che non applicano questa imposta.
L'obiezione è sicuramente sensata ma non regge.
Si basa prevalentemente sull'esperienza molto negativa della Svezia che nel 1984 introdusse una tassa simile, ma in modo molto sconclusionato senza prendere tutti quegli accorgimenti tecnici che rendono antieconomico delocalizzare le transazioni finanziari.
Tutt'ora la Svezia, insieme al Regno Unito, è una delle più strenue oppositrici a livello europeo dell'introduzione di questa tipo di tassa.
Se correttamente progettata, una tassa sulle transazioni finanziarie, consentirebbe con un'aliquota ridottissima, minore dello 0,1% (le proposte più diffuse parlano dello 0,05%) di raggiungere il duplice obiettivo di ridurre il volume delle transazioni finanziarie speculative (intendendo qui, con questo termine, le operazioni finanziarie fatte con un'orizzonte temporale di breve o brevissimo periodo, senza voler dare nessuna connotazione negativa alla parola) e produrre un buon gettito fiscale che può essere utilizzato per ridurre la tassazione sul lavoro.
Non v'è dubbio che non si può introdurre una tassa del genere senza avere, nel contempo, introdotto una legislazione che regoli in maniera molto più stringente le transazioni finanziarie che si eseguono fuori dai mercati regolamentati. La cosa è possibilissima, basta avere la volontà politica.
Una leva fondamentale che lo stato può utilizzare è quella della tutela legale delle transazioni.
Non molti sanno che nel Regno Unito esiste una tassa sulle transazioni delle azioni di imprese britanniche scambiate sulla piazza di Londra, si chiama Stamp Duty (maggiori informazioni qui). E' una tassa piuttosto elevata, dello 0,5%, sull'acquisto delle azioni di aziende inglese.  In Inghilterra il trasferimento di queste azioni è legalmente esecutivo solo dopo aver dimostrato di aver pagato la Stamp Duty. Nel contesto finanziario, la certezza della legalità delle transazione è chiaramente fondamentale.
Attualmente praticamente tutte le transazioni finanziare (anche quelle effettuate fuori dai mercati regolamentati) passano attraverso stanze di compensazione (così dette clearing house) dei flussi finanziari. Una regolamentazione a livello europeo di questi istituti (insieme, per altre ragioni, alle agenzie di rating) rappresenterebbe già un passo enorme verso la regolamentazione dell'intero sistema finanziario. I dati sulle transazioni finanziarie sono dati d'interesse pubblico e devono essere assolutamente regolamentati. Una volta compiuto questo passo fondamentale, un'imposta generalizzata su tutte le transazioni finanziarie sarebbe facilmente applicabile.
Quanto gettito potrebbe generare?
Sono stati compiuti diverse ricerche scientifiche in merito. Secondo Stephan Schulmeister, in uno studio pubblicato per Austrian Institute of Economic Research, un'aliquota di appena lo 0,01% applicata su tutte le transazioni finanziaria (compresi i derivati, le valute, ecc.) pur considerando una diminuzione delle transazioni pari al 25% genererebbe un gettito pari a 286 miliardi di dollari!
Volendo applicare un'aliquota appena più rilevante, pari allo 0,05%, e pur considerando un tracollo delle negoziazioni pari al 65%, otterremmo un gettito strabiliante, pari a 650 miliardi.
Ma il vantaggio principale di questa tassa dovrebbe risiedere nella riduzione delle transazioni speculative. Un certo numero di transazioni speculative sono positive per il mercato perché creano la liquidità necessaria a garantire agli investitori di lungo termine di poter smobilizzare l'investimento in qualunque momento. In una certa misura, quindi, la speculazione è utile al mercato. Come tutte le cose, però, si tratta di regolare la misura. Oggi come oggi il rapporto fra il valore delle transazioni finanziarie e l'economia reale (misurata in termini di PIL) è assolutamente spropositato. Questo squilibrio crea - come si è visto e vediamo purtroppo tutti i giorni - un danno rilevante all'economia. E' necessario, allora, al di là del gettito, imporre una tassa che scoraggi comportamenti dannosi per la società. E' il concetto che prende il nome di "tassa piguviana" (dal nome dell'economista Arthur Pigou) ovvero di quella tassa volta ad internalizzare le esternalità negative. Detto in termini più semplici: chi inquina paga! In questo caso, l'inquinamento è dato dall'eccessiva instabilità dei mercati che crea un costo sociale molto alto.
In sintesi, l'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie è materia largamente studiata e sviscerata in ogni suo dettaglio. E' tecnicamente possibile, ma richiede molta attenzione e cura nella progettazione, in particolare del contesto di regolamentazione del settore finanziario che rappresenta un prerequisito indispensabile. Il gettito della tassa sarebbe molto elevato, ma il vantaggio principale risiederebbe nella diminuzione dell'isteria dei mercati concentrando le politiche di portafoglio sugli investimenti a medio/lungo termine e riducendo quelli a breve/brevissimo termine.
Il lato "negativo" consisterebbe in una riduzione consistente delle commissioni del sistema finanziario e quindi, presumibilmente, in una forte riduzione del valore delle società finanziarie con tutto quello che ne consegue. 
 
 
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